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Sussurri

Page 30

by Dean Koontz

"Un vero peccato," mormorò lei.

  "Comunque, ci vorrà un po' di tempo per farci l'abitu­dine."

  "Un bel po'."

  "Magari cinquant'anni."

  "O sessanta."

  Scherzarono per un altro quarto d'ora, poi Hilary si alzò e si vestì. Tony si infilò un paio di jeans.

  Mentre si avviavano verso la porta, Hilary si fermò in soggiorno per ammirare uno dei quadri. "Voglio portare sei delle tue opere migliori da Wyant Stevens a Beverly Hills per vedere se ha intenzione di esporli."

  "Non lo farà."

  "Voglio provarci."

  "È una delle migliori gallerie."

  "Perché partire dal basso?"

  La fissò, ma parve non vederla neppure. Alla fine mor­morò: "Forse dovrei buttarmi."

  "Buttarti?"

  Gli riferì il caloroso consiglio ricevuto da Eugene Tucker, l'ex galeotto di colore che disegnava abiti da donna.

  "Tucker ha ragione," replicò Hilary. "E non devi nep­pure buttarti. Basta un saltello. Non devi lasciare il lavoro alla polizia, si tratta solo di tastare il terreno."

  Tony si strinse nelle spalle. "Wyant Stevens non mi prenderà neppure in considerazione ma non mi costa nulla fare un tentativo."

  "Vedrai che non sarà così," lo incoraggiò. "Scegli una mezza dozzina di quadri, fra quelli che ritieni più rappre­sentativi. Cercherò di fissarti un appuntamento con Wyant questo pomeriggio o al massimo domani."

  "Puoi prenderli anche subito," rispose. "Portateli via. E quando ti capita di vedere Stevens, puoi mostrarglieli."

  "Ma sono sicura che vorrà conoscerti."

  "Se gli piace il modo in cui dipingo, allora vorrà conoscermi. E in tal caso sarò felice di andare da lui."

  "Tony, veramente..."

  "Non voglio essere presente quando ti dirà che si tratta di una discreta opera da dilettante."

  "Sei impossibile."

  "Prudente."

  "Pessimista."

  "Realista."

  Non aveva tempo di esaminare le sessanta tele accata­state in soggiorno. Rimase sorpresa nello scoprire che ne aveva altre cinquanta nell'armadio, oltre a un centinaio di disegni a penna, altrettanti acquerelli e uria quantità inde­scrivibile di schizzi a matita. Voleva vederli tutti, ma solo quando fosse stata riposata e in grado di apprezzarli. Scelse sei delle dodici tele appese alle pareti del soggiorno. Tony l'aiutò ad avvolgere i quadri in un vecchio lenzuolo.

  Tony si infilò una camicia e un paio di scarpe e l'aiutò a caricare le tele nel baule dell'automobile.

  Hilary e Tony rimasero a guardarsi a lungo, senza avere il coraggio di salutarsi.

  Il fascio di luce del lampione li sfiorava appena. Lui la baciò dolcemente.

  La notte era fresca e silenziosa. Il cielo era pieno di stelle.

  "Tra poco spunterà l'alba," mormorò lui.

  "Vuoi cantare 'due amanti innamorati' con me?"

  "Sono stonato come una campana."

  "Non ci credo." Si strinse a lui. "Secondo me, tu sei bra­vissimo a fare tutto."

  "Che sviolinata!"

  "Ma è vero."

  Si diedero un ultimo bacio, poi Tony le aprì la portiera della macchina.

  "Oggi non vai a lavorare?" chiese lei.

  "No. Non dopo... Frank. Dovrò semplicemente andare per stendere il rapporto, ma non ci metterò più di un'ora. Mi prenderò qualche giorno di riposo. E avrò molto tempo Ubero."

  "Ti chiamo questo pomeriggio."

  "Aspetterò con ansia."

  Hilary si allontanò lungo le strade deserte. Dopo pochi isolati, lo stomaco iniziò a brontolarle per la fame. Si ri­cordò di non avere in casa niente per la colazione. Sarebbe dovuta andare a fare la spesa dopo l'arrivo dell'operaio del telefono, ma poi si era precipitata a casa di Tony. Svoltò a sinistra e si diresse verso un supermercato aperto ventiquattr'ore su ventiquattro per comprare uova e latte.

  Tony sapeva che Hilary non avrebbe impiegato più di dieci minuti per tornare a casa, a quell'ora del mattino, ma aspettò un quarto d'ora prima di chiamarla per assicurarsi che fosse arrivata sana e salva. Il telefono sembrava fuori uso. Tony sentì solo dei suoni computerizzati, il brusio ti­pico delle macchine, poi qualche ticchettio, un colpo secco e il sibilo della comunicazione interrotta. Riappese, compose di nuovo il numero, facendo attenzione a ogni singola cifra, ma il telefono continuò a non dare segni di vita.

  Era sicuro che il nuovo numero fosse esatto. Quando gliel'aveva dato, aveva controllato due volte per essere si­curo di scriverlo in modo corretto. E Hilary l'aveva letto da una copia dell'ordine della compagnia dei telefoni. Non era possibile che si fosse sbagliata.

  Chiamò il centralino ed espose il suo problema. L'operatrice cercò di chiamare quel numero ma neppure lei riuscì a mettersi in contatto.

  "Forse hanno riappeso male?" chiese Tony.

  "Non sembra."

  "Che cosa può fare?"

  "Riferirò che il telefono non funziona," rispose la donna. "Se ne occuperà il servizio guasti."

  "Quando?"

  "Questo numero appartiene a una persona anziana o a un invalido?"

  "No."

  "Allora dovrà seguire le normali procedure," spiegò lei. "Uno dei nostri tecnici passerà a controllarlo dopo le otto."

  "Grazie."

  Tony riappese il ricevitore. Era seduto sul bordo del letto. Osservò con aria pensosa le lenzuola sgualcite sulle quali si era distesa Hilary e fissò il foglio di carta con il nuovo numero di telefono.

  Non funzionava?

  Era possibile che il tecnico avesse commesso un errore nel collegare il telefono di Hilary. Era possibile, ma impro­babile. Decisamente improbabile.

  Improvvisamente, ripensò alle telefonate anonime che aveva ricevuto Hilary. In genere, gli uomini che si diverti­vano in quel modo erano deboli, inoffensivi, sessualmente poco attivi. Quasi sempre erano incapaci di stabilire una re­lazione normale e, di solito, erano troppo introversi e ti­midi per diventare qualcuno. In genere. Quasi sempre. Di solito. Ma non era possibile che quel pazzoide fosse l'unico su un milione a essere effettivamente pericoloso?

  Tony si portò una mano allo stomaco. Iniziava a sentire la nausea.

  Se gli allibratori di Las Vegas avessero accettato le scom­messe sulle probabilità che aveva Hilary Thomas di essere la vittima di due maniaci in meno di una settimana, sareb­bero state astronomiche. D'altra parte, negli anni trascorsi presso il dipartimento di polizia di Los Angeles, Tony aveva visto accadere le cose più improbabili: ormai aveva imparato ad aspettarsi anche ciò che appariva assoluta­mente impossibile.

  Pensò a Bobby Valdez. Nudo. Che strisciava fuori di quel mobiletto. Con gli occhi spalancati. La pistola in mano.

  Fuori della finestra, nel cielo ancora buio, un uccello lanciò un grido. Era un urlo acuto, che cresceva di intensità mentre l'uccello saltellava da un ramo all'altro: sembrava che fosse inseguito da qualcosa di enorme, implacabile e vorace.

  Tony aveva la fronte imperlata di sudore.

  Si alzò dal letto.

  A casa di Hilary stava accadendo qualcosa. C'era qual­cosa che non andava. Qualcosa di terribile.

  Poiché Hilary si era fermata al supermercato per comprare l'occorrente per la colazione, era arrivata a casa almeno mezz'ora dopo aver lasciato l'appartamento di Tony. Era affamata e piacevolmente distrutta. Aveva un'incredibile voglia di omelette al formaggio con il prezzemolo e poi so­gnava una bella dormita di almeno sei ore. Era troppo stanca per mettere la Mercedes in garage, così decise di parcheggiarla sul vialetto d'ingresso.

  I nebulizzatori automatici dell'impianto di irrigazione spruzzavano l'acqua sull'erba emettendo un leggero sibilo. Una brezza gentile faceva frusciare le fronde delle palme.

  Entrò in casa dall'ingresso principale. Il salotto era im­merso nel buio ma, prima di uscire, era stata previdente e aveva lasciato accesa la luce dell'ingresso. Con la borsa della spesa in una mano, chiuse a doppia mandata la porta.

  Accese la luce del salotto e impiegò qualche secondo per rendersi conto che la stanza era stata completamente di­strut
ta. Gli abat jour erano in frantumi, con le stoffe a bran­delli. La vetrinetta era ridotta in mille pezzi così come le preziose porcellane che conteneva; i frammenti di quelli che un tempo erano stati splendidi oggetti d'arte erano sparsi sul caminetto e per terra. Il divano e la poltrona erano stati squarciati e la stanza era piena di pezzi di gom­mapiuma e batuffoli di cotone. Due sedie erano ormai ri­dotte a un semplice ammasso di legno dopo essere state probabilmente scagliate più volte contro il muro. L'into­naco cadeva a pezzi. Le gambe del tavolinetto antico erano spezzate; tutti i cassetti erano stati tolti e sfondati. I quadri non erano stati spostati ma erano tagliati in più punti. La cenere era stata tolta dal camino e sparsa sullo stupendo tappeto Edward Fields. Non si era salvato niente: persino il parafuoco era stato distrutto e tutte le piante erano state strappate dai vasi e fatte in mille pezzi.

  Passato lo stupore e lo choc iniziali, Hilary venne sopraf­fatta da una rabbia furiosa nei confronti dei vandali. "Figli di puttana," mormorò fra i denti.

  Aveva trascorso molte ore per scegliere personalmente gli oggetti di quella stanza. Alcuni erano costati un'auten­tica fortuna, ma non era il danno economico che la infasti­diva, in quanto la maggior parte di quegli oggetti erano as­sicurati. Ma il loro valore affettivo non poteva essere ri­comprato: erano stati i primi oggetti che avesse mai posse­duto. Gli occhi le si velarono di lacrime.

  Stordita e incredula, si aggirò ancora in mezzo a quello scempio prima di rendersi conto che forse anche lei era in pericolo. Si bloccò con le orecchie tese: la casa era immersa nel silenzio.

  Un brivido gelido le corse lungo la schiena e per un at­timo le sembrò di sentire qualcuno respirarle sul collo.

  Si girò di scatto.

  Non c'era nessuno.

  L'armadio dell'ingresso era ancora chiuso come quando era entrata in casa. Lo fissò, nel timore che si potesse spa­lancare da un momento all'altro. Se qualcuno si fosse na­scosto là dentro ad aspettarla, probabilmente si sarebbe già fatto vedere.

  È assurdo, pensò. Non può succedere un'altra volta. E impossibile. È ridicolo. Non è vero?

  Avvertì un rumore dietro di lei.

  Si girò, preparandosi a colpire l'assalitore con il braccio libero.

  Ma non c'era nessuno. Era sola nella stanza.

  Nonostante tutto, era convinta che ciò che aveva udito non era un semplice scricchiolio del parquet. Sapeva di non essere sola in casa. Avvertiva un'altra presenza.

  Di nuovo quel rumore.

  In sala da pranzo.

  Un colpo secco. Un tintinnio. Come se qualcuno avesse appoggiato un piede sui cocci di vetro o di porcellana.

  Un altro passo.

  La sala da pranzo si trovava a pochi metri da Hilary. Era immersa nel buio.

  Un altro passo: crac.

  Hilary cominciò ad arretrare, allontanandosi dalla fonte del rumore, dirigendosi verso la porta d'ingresso che le sembrava irraggiungibile. Perché mai l'aveva chiusa a chiave?

  Un uomo emerse dall'oscurità della sala da pranzo e avanzò nella penombra: era alto, robusto e con le spalle larghe. Si fermò per un attimo, poi fece un passo nel sa­lotto illuminato.

  "No!" urlò Hilary.

  Sbalordita, si fermò. Con il cuore che le batteva all'im­pazzata e le labbra secche, prese a scuotere la testa: no, no, no.

  L'uomo stringeva in mano un lungo coltello affilato e luccicante. Le sorrise. Era Bruno Frye.

  Tony era contento che le strade fossero deserte; non avrebbe sopportato di perdere un secondo più del necessa­rio. Aveva già il terrore di arrivare troppo tardi. Pigiò sul­l'acceleratore e poco dopo raggiunse la prima discesa subito fuori Beverly Hills; il motore rombava e i finestrini e gli og­getti sul cruscotto tintinnavano. Ai piedi della collina il se­maforo era rosso. Tony non sfiorò neppure il freno. Si li­mitò a suonare il clacson e attraversò l'incrocio a tutta velo­cità. Si incuneò in un canale di scolo che ad andatura nor­male sarebbe passato inosservato ma in quel momento gli parve incredibilmente profondo. Per una frazione di se­condo si sentì sospeso in aria, poi sbattè la testa contro il tet­tuccio nonostante la cintura di sicurezza. La jeep atterrò pe­santemente sull'asfalto e un rumore di ferraglia riecheggiò assieme allo stridio delle gomme. La macchina cominciò a sbandare, con la coda che slittava e le gomme che fuma­vano. Per un istante, Tony temette di perdere il controllo, poi il volante rispose nuovamente ai suoi comandi e si ri­trovò oltre la metà della collina successiva senza neanche sa­pere come.

  Viaggiava a sessanta chilometri l'ora, ma accelerò imme­diatamente fino a cento. Decise che non era il caso di esa­gerare, visto che era quasi arrivato. Se si fosse schiantato contro un lampione o si fosse ammazzato fuori strada, non sarebbe stato di grande aiuto a Hilary.

  Comunque continuò a ignorare i limiti di velocità. An­dava troppo forte, tagliando le curve una dopo l'altra e rin­graziando il cielo di non incrociare auto che venissero in senso contrario. I semafori erano tutti contro di lui, quasi fossero un segno del destino, ma Tony li ignorò. Non aveva paura di essere multato per guida pericolosa. Se l'a­vessero fermato, avrebbe mostrato il distintivo e trascinato i colleghi in uniforme da Hilary. Ma preferiva rinunciare ai rinforzi, perché avrebbe significato fermarsi, identificarsi e spiegare l'emergenza. Se l'avessero fatto accostare, avrebbe perso come minimo un minuto prezioso.

  E aveva il presentimento che un minuto avrebbe potuto significare la vita o la morte di Hilary.

  Mentre fissava Bruno Frye che si avvicinava, Hilary pensò di essere impazzita. Quell'uomo era morto. Morto! L'aveva accoltellato due volte, aveva visto il suo sangue. L'aveva ri­conosciuto anche all'obitorio: era rigido, livido e senza vita. Gli avevano fatto l'autopsia. Era stato steso il certifi­cato di morte. I morti non camminano. Eppure lui era tor­nato fra i vivi, era uscito dalla sala da pranzo quale ospite decisamente indesiderato, con un coltello in mano, per fi­nire ciò che aveva iniziato la settimana precedente. Ma era semplicemente impossibile.

  Hilary chiuse gli occhi e pregò che sparisse, ma un se­condo più tardi, quando si obbligò a guardare nuovamente, lui era ancora lì.

  Hilary era pietrificata. Voleva correre ma il suo corpo era rigido, bloccato, e lei non aveva la forza di farlo muo­vere. Si sentiva debole e fragile come una vecchietta: era si­cura che se fosse riuscita in qualche modo a sbloccarsi e a fare un passo, sarebbe crollata.

  Non riusciva a parlare, ma dentro di sé stava urlando.

  Frye si fermò a un metro e mezzo da lei, con un piede su un pezzo dell'imbottitura strappata. Era cadaverico, tre­mava vistosamente ed era sicuramente sull'orlo di una crisi isterica.

  Un morto poteva essere isterico?

  Doveva essere impazzita. Era l'unica soluzione. Si trat­tava di pazzia pura. Ma sapeva che non era così.

  Un fantasma? Lei non credeva ai fantasmi. Inoltre, uno spirito non dovrebbe essere inconsistente, trasparente o perlomeno luminoso? Un'apparizione poteva essere così reale, convincente e terrificante come quel morto in piedi?

  "Puttana," la insulto. "Sporca puttana!"

  Quella voce roca e dal tono gracchiante era inconfondi­bile.

  Ma, pensò Hilary terrorizzata, le sue corde vocali avreb­bero già dovuto cominciare a decomporsi. La sua gola do­vrebbe essere bloccata dalla putrefazione.

  Sentì nascere in lei una risatina isterica ma si controllò. Se avesse cominciato a ridere, non si sarebbe più fermata.

  "Mi hai ucciso," l'accusò minaccioso, sempre sull'orlo della crisi isterica.

  "No," rispose Hilary. "Oh no. No."

  "Invece sì," urlò lui brandendo il coltello. "Mi hai uc­ciso! Non mentire. Ne sono sicuro. Pensavi non lo sapessi? Oh, Cristo! Mi sento così strano, così solo, abbandonato e vuoto." La sua voce tradiva una sofferenza mista a rabbia. "Così vuoto e spaventato. E tutto per colpa tua."

  Si avvicinò lentamente, camminando fra gli oggetti in frantumi.

  Hilary vide che gli occhi del morto non erano vuoti o ve­lati dalla cataratta. Quegli occhi erano grigio azzurri, vivaci e colmi di una rabbia gelida.

  "Qu
esta volta morirai per sempre," sibilò Frye avvicinan­dosi. "Non tornerai mai più."

  Hilary cercò di allontanarsi, fece un passo indietro ma le gambe cedettero.

  Riuscì tuttavia a non cadere. Le era rimasta più forza di quanto pensasse.

  "Questa volta," continuò Frye, "prenderò ogni precau­zione. Non avrai più alcuna possibilità di tornare. Ti strap­però quel maledetto cuore."

  Hilary indietreggiò ancora, ma era inutile: non poteva scappare. Non avrebbe avuto il tempo di raggiungere la porta e sbloccare entrambe le serrature. Se ci avesse pro­vato, lui le sarebbe stato subito addosso, affondandole il coltello nella schiena.

  "Ti trafiggerò il cuore con un picchetto."

  Se fosse corsa verso le scale per cercare di prendere la pi­stola nella sua camera, non sarebbe sicuramente stata fortu­nata come la volta precedente. Lui l'avrebbe afferrata prima che potesse raggiungere il primo piano.

  "Ti taglierò quella fottuta testa."

  La sovrastava, sempre più vicino.

  Hilary non poteva fuggire né nascondersi.

  "Ti taglierò la lingua. Ti riempirò quella schifosa bocca di aglio, così non potrai più ammaliare il diavolo per resu­scitare dall'inferno."

  Hilary sentiva il cuore che batteva all'impazzata. Le mancava il fiato per la paura.

  "Ti strapperò gli occhi."

  Era agghiacciata, incapace di muoversi.

  "Ti strapperò gli occhi riducendoli in poltiglia, così non vedrai più la strada del ritorno."

  Hilary lanciò un urlo.

  Frye sollevò il coltello. "Ti taglierò le mani, così non tor­nerai mai più dall'inferno."

  Il coltello rimase sospeso per un'eternità, mentre il ter­rore distorceva la cognizione del tempo di Hilary. Si sen­tiva attratta, quasi ipnotizzata, da quell'arma luccicante.

  "No!"

  La lama affilata prese a scintillare.

  "Puttana."

  Il coltello cominciò ad abbassarsi verso il suo viso, giù, giù, sempre più giù, in un lento movimento di morte.

  Hilary aveva ancora in mano il sacchetto della spesa. Con un gesto istintivo, senza pensare a quello che stava fa­cendo, lo afferrò con entrambe le mani e lo sollevò, pun­tandolo in direzione del coltello, cercando disperatamente di fermare quella mano assassina.

 

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