Collected Works of Giovanni Boccaccio
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L’altre donne, udita Pampinea, non solamente il suo consiglio lodarono, ma disiderose di seguitarlo avevan giá piú particularmente tra sé cominciato a trattar del modo, quasi, quindi levandosi da sedere, a mano a mano dovessero entrare in cammino. Ma Filomena, la quale discretissima era, disse: — Donne, quantunque ciò che ragiona Pampinea sia ottimamente detto, non è per ciò cosí da correre a farlo, come mostra che voi vogliate fare. Ricordivi che noi siamo tutte femine, e non ce n’ha niuna sí fanciulla, che non possa ben conoscere come le femine sien ragionate insieme e senza la provvedenza d’alcuno uomo si sappiano regolare. Noi siamo mobili, riottose, sospettose, pusillanime e paurose, per le quali cose io dubito forte, se noi alcuna altra guida non prendiamo che la nostra, che questa compagnia non si dissolva troppo piú tosto e con meno onor di noi che non ci bisognerebbe: e per ciò è buono a provvederci avanti che cominciamo. — Disse allora Elissa: — Veramente gli uomini sono delle femine capo, e senza l’ordine loro rade volte riesce alcuna nostra opera a laudevole fine: ma come possiam noi aver questi uomini? Ciascuna di noi sa che de’ suoi son la maggior parte morti, e gli altri che vivi rimasi sono chi qua e chi lá in diverse brigate, senza saper noi dove, vanno fuggendo quello che noi cerchiamo di fuggire: ed il pregare gli strani non saria convenevole; per che, se alla nostra salute vogliamo andar dietro, trovare si convien modo di sí fattamente ordinarci, che, dove per diletto e per riposo andiamo, noia e scandalo non ne segua.
Mentre tra le donne erano cosí fatti ragionamenti, ed ecco entrar nella chiesa tre giovani, non per ciò tanto, che meno di venticinque anni fosse l’etá di colui che piú giovane era di loro; ne’ quali né perversitá di tempo né perdita d’amici o di parenti né paura di se medesimi avea potuto amor, non che spegnere, ma raffreddare. De’ quali l’uno era chiamato Panfilo e Filostrato il secondo e l’ultimo Dioneo, assai piacevole e costumato ciascuno: ed andavan cercando per loro somma consolazione, in tanta turbazione di cose, di vedere le lor donne, le quali per ventura tutte e tre erano tra le predette sette, come che dell’altre alcune ne fossero congiunte parenti d’alcuni di loro. Né prima esse agli occhi corsero di costoro, che costoro furono da esse veduti; per che Pampinea allor cominciò sorridendo: — Ecco che la fortuna a’ nostri cominciamenti è favorevole, ed hacci davanti posti discreti giovani e valorosi, li quali volentieri e guida e servidor ne saranno se di prendergli a questo uficio non schiferemo. — Neifile allora, tutta nel viso divenuta per vergogna vermiglia, per ciò che l’una era di quelle che dall’un de’ giovani era amata, disse: — Pampinea, per Dio, guarda ciò che tu dichi. Io conosco assai apertamente, niuna altra cosa che tutta buona dir potersi di qualunque s’è l’un di costoro, e credogli a troppo maggior cosa che questa non è sufficienti, e similmente avviso, loro buona compagnia ed onesta dover tenere, non che a noi, ma a molto piú belle e piú care che noi non siamo: ma per ciò che assai manifesta cosa è, loro essere d’alcune che qui ne sono innamorati, temo che infamia e riprensione, senza nostra colpa o di loro, non ce ne segua se gli meniamo. — Disse allora Filomena: — Questo non monta niente; lá dove io onestamente viva né mi rimorda d’alcuna cosa la coscienza, parli chi vuole in contrario: Iddio e la veritá l’armi per me prenderanno. Ora, fossero essi pur giá disposti a venire, ché veramente, come Pampinea disse, potremmo dire, la fortuna essere alla nostra andata favoreggiarne. — L’altre, udendo costei cosí fattamente parlare, non solamente si tacquero, ma con consentimento concorde tutte dissero che essi fosser chiamati e loro si dicesse la loro intenzione, e pregassersi che dovesse lor piacere in cosí fatta andata lor tener compagnia. Per che, senza piú parole, Pampinea, levatasi in piè, la quale ad alcun di loro per consanguinitá era congiunta, verso loro che fermi stavano a riguardarle si fece, e con lieto viso salutatigli, loro la lor disposizione fe’ manifesta e pregògli per parte di tutte che con puro e fratellevole animo a tener lor compagnia si dovessero disporre. I giovani si credettero primieramente essere beffati, ma poi che videro che da dovero parlava la donna, risposero lietamente, sé essere apparecchiati: e senza dare alcuno indugio all’opera, anzi che quindi si partissono, diedono ordine a ciò che a fare avessono in sul partire. Ed ordinatamente fatta ogni cosa opportuna apparecchiare, e prima mandato lá dove intendevan d’andare, la seguente mattina, cioè il mercoledí, in su lo schiarir del giorno, le donne con alquante delle lor fanti ed i tre giovani con tre lor famigliari, usciti della cittá, si misero in via: né oltre a due piccole miglia si dilungarono da essa, che essi pervennero al luogo da loro primieramente ordinato. Era il detto luogo sopra una piccola montagnetta, da ogni parte lontano alquanto alle nostre strade, di vari albuscelli e piante tutte di verdi frondi ripiene piacevole a riguardare; in sul colmo della quale era un palagìo con bello e gran cortile nel mezzo, e con logge e con sale e con camere, tutte ciascuna verso di sé bellissima e di liete dipinture ragguardevole ed ornata, con pratelli da torno e con giardini maravigliosi e con pozzi d’acque freschissime e con vòlte di preziosi vini: cose piú atte a curiosi bevitori che a sobrie ed oneste donne. Il quale tutto spazzato, e nelle camere i letti fatti, ed ogni cosa di fiori quali nella stagione si potevano avere piena e di giunchi giuncata la vegnente brigata trovò con suo non poco piacere. E postisi nella prima giunta a sedere, disse Dioneo, il quale oltre ad ogni altro era piacevole giovane e pieno di motti: — Donne, il vostro senno piú che il nostro avvedimento ci ha qui guidati; io non so quello che de’ vostri pensieri voi v’intendete di fare: li miei lasciai io dentro dalla porta della cittá allora che io con voi poco fa me n’uscii fuori, e per ciò o voi a sollazzare ed a ridere ed a cantare con meco insieme vi disponete; tanto, dico, quanto alla vostra dignitá s’appartiene; o voi mi licenziate che io per li miei pensier mi ritorni, e steami nella cittá tribolata. — A cui Pampinea, non d’altra maniera che se similmente tutti i suoi avesse da sé cacciati, lieta rispose: — Dioneo, ottimamente parli: festevolmente viver si vuole, né altra cagione dalle tristizie ci ha fatte fuggire. Ma per ciò che le cose che sono senza modo non possono lungamente durare, io che cominciatrice fui de’ ragionamenti da’ quali questa cosí bella compagnia è stata fatta, pensando al continuar della nostra letizia, estimo che di necessitá sia, convenire esser tra noi alcun principale, il quale noi ed onoriamo ed ubidiamo come maggiore, nel quale ogni pensiero stea di doverci a lietamente vivere disporre. Ed acciò che ciascun pruovi il peso della sollecitudine insieme col piacere della maggioranza, e per conseguente, da una parte e d’altra tratti, non possa chi nol pruova invidia avere alcuna, dico che a ciascuno per un giorno s’attribuisca ed il peso e l’onore, e chi il primo di noi esser debba nell’elezion di noi tutti sia; di quegli che seguiranno, come l’ora del vespro s’avvicinerá, quegli o quella che a colui o a colei piacerá che quel giorno avrá avuta la signoria: e questo cotale, secondo il suo arbitrio, del tempo che la sua signoria dée bastare, del luogo e del modo nel quale a vivere abbiamo ordini e disponga.
Queste parole sommamente piacquero, e ad una voce lei prima del primo giorno elessero, e Filomena, corsa prestamente ad uno alloro, per ciò che assai volte aveva udito ragionare di quanto onore le frondi di quello eran degne e quanto degno d’onore facevano chi n’era meritamente incoronato, di quello alcuni rami colti, ne le fece una ghirlanda onorevole ed apparente; la quale, méssale sopra la testa, fu poi mentre durò la lor compagnia manifesto segno a ciascuno altro della real signoria e maggioranza.
Pampinea, fatta reina, comandò che ogni uom tacesse, avendo giá fatti i famigliari de’ tre giovani e le loro fanti, che eran quattro, davanti chiamarsi; e tacendo ciascun, disse: — Acciò che io prima esemplo dèa a tutti voi per lo quale, di bene in meglio procedendo, la nostra compagnia con ordine e con piacere e senza alcuna vergogna viva e duri quanto a grado ne fia, io primieramente costituisco Parmeno, famigliare di Dioneo, mio siniscalco, ed a lui la cura e la sollecitudine di tutta la nostra famiglia commetto e ciò che al servigio della sala appartiene. Sirisco, famigliar di Panfilo, voglio che di noi sia spenditore e tesoriere, e di Parmeno sèguiti i comandamenti. Tindaro, al servigio di Filostrato e degli altri due, a
ttenda nelle camere loro, qualora gli altri, intorno alli loro ufici impediti, attender non vi potessero. Misia, mia fante, e Licisca, di Filomena, nella cucina saranno continue e quelle vivande diligentemente apparecchieranno che per Parmeno loro saranno imposte. Chimera, di Lauretta, e Stratilia, di Fiammetta, al governo delle camere delle donne intente vogliamo che stieno, ed alla nettezza de’ luoghi dove staremo. E ciascun generalmente, per quanto egli avrá cara la nostra grazia, vogliamo e comandiamo che si guardi, dove che egli vada, onde che egli torni, che che egli oda o veggia, che niuna novella altra che lieta ci rechi di fuori. — E questi ordini sommariamente dati, li quali da tutti commendati furono, lieta drizzata in piè, disse: — Qui sono giardini, qui sono pratelli, qui altri luoghi dilettevoli assai, per li quali ciascuno a suo piacer sollazzandosi vada; e come terza suona, ciascun qui sia, acciò che per lo fresco si mangi.
Licenziata adunque dalla nuova reina la lieta brigata, li giovani insieme con le belle donne, ragionando dilettevoli cose, con lento passo si misero per un giardino, belle ghirlande di varie frondi faccendosi ed amorosamente cantando. E poi che in quello tanto fûr dimorati quanto di spazio dalla reina avuto aveano, a casa tornati, trovarono Parmeno studiosamente aver dato principio al suo uficio, per ciò che, entrati in una sala terrena, quivi le tavole messe videro con tovaglie bianchissime e con bicchieri che d’ariento parevano, ed ogni cosa di fiori di ginestra coperta; per che, data l’acqua alle mani, come piacque alla reina, secondo il giudicio di Parmeno tutti andarono a sedere. Le vivande dilicatamente fatte vennero e finissimi vini fûr presti: e senza piú, chetamente li tre famigliari servirono le tavole. Dalle quali cose, per ciò che belle ed ordinate erano, rallegrato ciascuno, con piacevoli motti e con festa mangiarono; e levate le tavole, con ciò fosse cosa che tutte le donne carolar sapessero e similmente i giovani, e parte di loro ottimamente e sonare e cantare, comandò la reina che gli strumenti venissero: e per comandamento di lei, Dioneo preso un leuto e la Fiammetta una viuola, cominciarono soavemente una danza a sonare. Per che la reina con l’altre donne, insieme co’ due giovani presa una carola, con lento passo, mandati i famigliari a mangiare, a carolar cominciarono, e quella finita, canzoni vaghette e liete cominciarono a cantare. Ed in questa maniera stettero tanto che tempo parve alla reina d’andare a dormire; per che, data a tutti la licenza, li tre giovani alle lor camere, da quelle delle donne separate, se n’andarono, le quali co’ letti ben fatti e cosí di fiori piene come la sala trovarono: e simigliantemente le donne le loro, per che, spogliatesi, s’andarono a riposare.
Non era di molto spazio sonata nona, che la reina, levatasi, tutte l’altre fece levare e similmente i giovani, affermando esser nocivo il troppo dormire il giorno: e cosí se n’andarono in un pratello nel quale l’erba era verde e grande né vi poteva d’alcuna parte il sole, e quivi, sentendo un soave venticello venire, si come volle la lor reina, tutti sopra la verde erba si posero in cerchio a sedere. A’ quali ella disse così:
Come voi vedete, il sole è alto ed il caldo è grande, né altro s’ode che le cicale su per gli ulivi, per che l’andare al presente in alcun luogo sarebbe senza dubbio sciocchezza. Qui è bello e fresco stare, ed hacci, come voi vedete, e tavolieri e scacchieri, e puote ciascuno secondo che all’animo gli è piú di piacere diletto pigliare. Ma se in questo il mio parer si seguisse, non giucando, nel quale l’animo dell’una delle parti convien che si turbi senza troppo piacere dell’altra o di chi sta a vedere, ma novellando, il che può porgere, dicendo uno, a tutta la compagnia che ascolta diletto, questa calda parte del giorno trapasseremo. Voi non avrete compiuta ciascuno di dire una sua novelletta, che il sole fia declinato ed il caldo mancato, e potremo dove piú a grado vi fia andare prendendo diletto: e per ciò, quando questo che io dico vi piaccia, ché disposta sono in ciò di seguire il piacer vostro, facciánlo; e dove non vi piacesse, ciascuno infino all’ora del vespro quello faccia che piú gli piace. — Le donne parimente e gli uomini tutti lodarono il novellare. — Adunque, — disse la reina — se questo vi piace, per questa prima giornata voglio che libero sia a ciascuno di quella materia ragionare che piú gli sará a grado. — E rivolta a Panfilo, il quale alla sua destra sedea, piacevolmente gli disse che con una delle sue novelle all’altre desse principio; laonde Panfilo, udito il comandamento, prestamente, essendo da tutti ascoltato, cominciò cosí:
[I]
Ser Cepparello con una falsa confessione inganna un santo frate, e muorsi; ed essendo stato un pessimo uomo in vita, è, morto, reputato per santo e chiamato san Ciappelletto.
Convenevole cosa è, carissime donne, che ciascuna cosa la quale l’uomo fa, dall’ammirabile e santo nome di Colui il quale di tutte fu facitore le déa principio; per che, dovendo io al nostro novellare, sí come primo, dare cominciamento, intendo da una delle sue maravigliose cose incominciare, acciò che, quella udita, la nostra speranza in lui si come in cosa impermutabile si fermi, e sempre sia da noi il suo nome lodato.
Manifesta cosa è che, sí come le cose temporali tutte sono transitorie e mortali, cosí in sé e fuor di sé esser piene di noia, d’angoscia e di fatica, e ad infiniti pericoli soggiacere; alle quali senza niun fallo né potremmo noi, che viviamo mescolati in esse e che siamo parte d’esse, durare né ripararci, se spezial
Novella prima
[I]
SER CEPPARELLO CON una falsa confessione inganna un santo frate, e muorsi; ed essendo stato un pessimo uomo in vita, è, morto, reputato per santo e chiamato san Ciappelletto.
Convenevole cosa è, carissime donne, che ciascuna cosa la quale l’uomo fa, dall’ammirabile e santo nome di Colui il quale di tutte fu facitore le déa principio; per che, dovendo io al nostro novellare, sí come primo, dare cominciamento, intendo da una delle sue maravigliose cose incominciare, acciò che, quella udita, la nostra speranza in lui si come in cosa impermutabile si fermi, e sempre sia da noi il suo nome lodato.
Manifesta cosa è che, sí come le cose temporali tutte sono transitorie e mortali, cosí in sé e fuor di sé esser piene di noia, d’angoscia e di fatica, e ad infiniti pericoli soggiacere; alle quali senza niun fallo né potremmo noi, che viviamo mescolati in esse e che siamo parte d’esse, durare né ripararci, se spezial grazia di Dio forza ed avvedimento non ci prestasse. La quale a noi ed in noi non è da credere che per alcun nostro merito discenda, ma dalla sua propria benignitá mossa e da’ prieghi di coloro impetrata che, sí come noi siamo, furon mortali, e bene i suoi piaceri mentre furono in vita seguendo, ora con lui eterni son divenuti e beati; alli quali noi medesimi, sí come a procuratori informati per esperienza della nostra fragilitá, forse non audaci di porgere i prieghi nostri nel cospetto di tanto giudice, delle cose le quali a noi reputiamo opportune gli porgiamo. Ed ancor piú lui verso noi di pietosa liberalitá pieno discerniamo: ché, non potendo l’acume dell’occhio mortale nel segreto della divina mente trapassare in alcun modo, avvien forse talvolta che, da falsa oppinione ingannati, tale dinanzi alla sua maestá facciamo procuratore che da quella con eterno esilio è scacciato: e nondimeno esso, al quale niuna cosa è occulta, piú alla puritá del pregator riguardando che alla sua ignoranza o all’esilio del pregato, cosí come se quegli fosse nel suo cospetto beato esaudisce coloro che il priegano. Il che manifestamente potrá apparire nella novella la quale di raccontare intendo: manifestamente, dico, non il giudicio di Dio ma quel degli uomini seguitando.
Ragionasi adunque che, essendo Musciatto Franzesi di ricchissimo e gran mercatante in Francia cavalier divenuto e dovendone in Toscana venire con messer Carlo Senzaterra, fratello del re di Francia, da papa Bonifazio addomandato ed al venir promosso; sentendo egli li fatti suoi, sí come le piú volte son quegli de’ mercatanti, molto intralciati in qua ed in lá, e non potersi di leggeri né subitamente stralciare, pensò quegli commettere a piú persone, ed a tutti trovò modo: fuor solamente in dubbio gli rimase, cui lasciar potesse sufficiente a riscuoter suoi crediti fatti a piú borgognoni. E la cagione del dubbio era il sentire li borgognoni uomini riottosi e di mala condizione e misleali: ed a lui non andava per la memoria chi tanto malvagio uom fosse, in cui
egli potesse alcuna fidanza avere, che opporre alla loro malvagitá si potesse. E sopra questa esaminazione pensando lungamente stato, gli venne a memoria un ser Cepparello da Prato il quale molto alla sua casa in Parigi si riparava, il quale, per ciò che piccolo di persona era e molto assettatuzzo, non sappiendo li franceschi che si volesse dir Cepparello, credendo che «cappello», cioè «ghirlanda», secondo il lor volgare a dir venisse, per ciò che piccolo era, come dicemmo, non Ciappello ma Ciappelletto il chiamavano: e per Ciappelletto era conosciuto per tutto, lá dove pochi per ser Cepparello il conoscieno. Era questo Ciappelletto di questa vita. Egli, essendo notaio, avea grandissima vergogna quando un de’ suoi strumenti, come che pochi ne facesse, fosse altro che falso trovato; de’ quali tanti avrebbe fatti, di quanti fosse stato richesto, e quegli piú volentieri in dono che alcuno altro grandemente salariato. Testimonianze false con sommo diletto diceva, richesto e non richesto: e dandosi a quei tempi in Francia a’ saramenti grandissima fede, non curandosi fargli falsi, tante quistioni malvagiamente vincea, a quante a giurare di dire il vero sopra la sua fede era chiamato. Aveva oltre modo piacere, e forte vi studiava, in commettere tra amici e parenti e qualunque altra persona mali ed inimicizie e scandali, de’ quali quanto maggiori mali vedeva seguire, tanto piú d’allegrezza prendea. Invitato ad uno omicidio o a qualunque altra rea cosa, senza negarlo mai, volonterosamente v’andava, e piú volte a fedire e ad uccidere uomini con le proprie mani si ritrovò volentieri. Bestemmiatore di Dio e de’ santi era grandissimo, e per ogni piccola cosa, sí come colui che piú che alcuno altro era iracondo. A chiesa non usava giá mai, ed i sagramenti di quella tutti come vil cosa con abominevoli parole scherniva; e cosí in contrario le taverne e gli altri disonesti luoghi visitava volentieri ed usavagli. Delle femine era cosí vago come sono i cani de’ bastoni; del contrario piú che alcuno altro tristo uomo si dilettava. Imbolato avrebbe e rubato con quella coscienza che un santo uomo offerrebbe. Gulosissimo e bevitor grande, tanto che alcuna volta sconciamente gli facea noia; giucatore e mettitore di malvagi dadi era solenne. Perché mi distendo io in tante parole? Egli era il piggiore uomo, forse, che mai nascesse. La cui malizia lungo tempo sostenne la potenza e lo stato di messer Musciatto, per cui molte volte e dalle private persone, alle quali assai sovente faceva ingiuria, e dalla corte, a cui tuttavia la facea, fu riguardato. Venuto adunque questo ser Cepparello nell’animo a messer Musciatto, il quale ottimamente la sua vita conosceva, si pensò il detto messer Musciatto, costui dovere esser tale quale la malvagitá de’ borgognoni il richiedea; e per ciò, fattolsi chiamare, gli disse cosí: — Ser Ciappelletto, come tu sai, io sono per ritrarmi del tutto di qui, ed avendo tra gli altri a fare co’ borgognoni, uomini pieni d’inganni, non so cui io mi possa lasciare a riscuotere il mio da loro piú convenevole di te: e per ciò, con ciò sia cosa che tu niente facci al presente, ove a questo vogli intendere, io intendo di farti avere il favore della corte e di donarti quella parte di ciò che tu riscoterai, che convenevole sia. — Ser Ciappelletto, che scioperato si vedea e male agiato delle cose del mondo, e lui ne vedeva andare che suo sostegno e ritegno era lungamente stato, senza niuno indugio e quasi da necessitá costretto si diliberò, e disse che volea volentieri. Per che, convenutisi insieme, ricevuta ser Ciappelletto la procura e le lettere favorevoli del re, partitosi messer Musciatto, n’andò in Borgogna, dove quasi niuno il conoscea: e quivi fuori di sua natura benignamente e mansuetamente cominciò a voler riscuotere e fare quello per che andato v’era, quasi si riserbasse l’adirarsi al da sezzo. E cosí faccendo, riparandosi in casa di due fratelli fiorentini, li quali quivi ad usura prestavano e lui per amor di messer Musciatto onoravano molto, avvenne che egli infermò; al quale i due fratelli fecero prestamente venir medici e fanti che il servissero ed ogni cosa opportuna alla sua sanitá racquistare. Ma ogni aiuto era nullo, per ciò che il buono uomo, il quale giá era vecchio e disordinatamente vivuto, secondo che i medici dicevano, andava di giorno in giorno di male in peggio, come colui che aveva il male della morte; di che li due fratelli si dolevan forte, ed un giorno, assai vicini della camera nella quale ser Ciappelletto giaceva infermo, seco medesimi cominciarono a ragionare. — Che farem noi — diceva l’uno all’altro — di costui? Noi abbiamo de’ fatti suoi pessimo partito alle mani: per ciò che il mandarlo fuori di casa nostra cosí infermo ne sarebbe gran biasimo e segno manifesto di poco senno, veggendo la gente che noi l’avessimo ricevuto prima, e poi fatto servire e medicare cosí sollecitamente, ed ora, senza potere egli aver fatta cosa alcuna che dispiacerci debba, cosí subitamente di casa nostra, ed infermo a morte, vederlo mandar fuori. D’altra parte, egli è stato sí malvagio uomo, che egli non si vorrá confessare né prendere alcuno sagramento della Chiesa, e morendo senza confessione, niuna chiesa vorrá il suo corpo ricevere, anzi sará gittato a’ fossi a guisa d’un cane; e se egli si pur confessa, i peccati suoi son tanti e si orribili, che il simigliante n’avverrá, per ciò che frate né prete ci sará che il voglia né possa assolvere; per che, non assoluto, anche sará gittato a’ fossi. E se questo avviene, il popolo di questa terra, il quale sí per lo mestier nostro, il quale loro pare iniquissimo e tutto il giorno ne dicon male, e sí per la volontá che hanno di rubarci, veggendo ciò si leverá a romore e griderá: «Questi lombardi cani, li quali a chiesa non sono voluti ricevere, non ci si voglion piú sostenere!», e correrannoci alle case e per avventura non solamente l’avere ci ruberanno, ma forse ci torranno oltre a ciò le persone; di che noi in ogni guisa stiam male, se costui muore. — Ser Ciappelletto, il quale, come dicemmo, presso giacea lá dove costoro cosí ragionavano, avendo l’udire sottile, sí come le piú volte veggiamo aver gl’infermi, udí ciò che costoro di lui dicevano; li quali egli si fece chiamare, e disse loro: — Io non voglio che voi d’alcuna cosa di me dubitiate né abbiate paura di ricevere per me alcun danno; io ho inteso ciò che di me ragionato avete e son certissimo che cosí n’avverrebbe come voi dite, dove cosí andasse la bisogna come avvisate: ma ella andrá altramenti. Io ho vivendo tante ingiurie fatte a Domenedio, che, per farnegli io una ora in su la mia morte, né piú né meno ne fará. E per ciò procacciate di farmi venire un santo e valente frate il piú che aver potete, se alcun ce n’è, e lasciate fare a me, ché fermamente io acconcerò i fatti vostri ed i miei in maniera che stará bene e che dovrete esser contenti. — I due fratelli, come che molta speranza non prendessono di questo, nondimeno se n’andarono ad una religione di frati e domandarono alcun santo e savio uomo che udisse la confessione d’un lombardo che in casa loro era infermo: e fu lor dato un frate antico di santa e di buona vita, e gran maestro in Iscrittura e molto venerabile uomo, nel quale tutti i cittadini grandissima e speziale divozione aveano, e lui menarono. Il quale, giunto nella camera dove ser Ciappelletto giacea ed allato postoglisi a sedere, prima benignamente il cominciò a confortare ed appresso il domandò, quanto tempo era che egli altra volta confessato si fosse. Al quale ser Ciappelletto, che mai confessato non s’era, rispose: — Padre mio, la mia usanza suole essere di confessarmi ogni settimana almeno una volta: senza che, assai sono di quelle che io mi confesso piú; è il vero che, poi che io infermai, che son passati da otto dí, io non mi confessai, tanta è stata la noia che la ‘nfermitá m’ha data. — Disse allora il frate: — Figliuol mio, bene hai fatto, e cosí si vuol fare per innanzi; e veggio che, poi sì spesso ti confessi, poca fatica avrò d’udire o di domandare. — Disse ser Ciappelletto: — Messer lo frate, non dite così; io non mi confessai mai tante volte né sì spesso, che io sempre non mi volessi confessare generalmente di tutti i miei peccati che io mi ricordassi dal di che io nacqui infino a quello che confessato mi sono: e per ciò vi priego, padre mio buono, che così puntalmente d’ogni cosa mi domandiate come se mai confessato non mi fossi, e non mi riguardate perché io infermo sia, ché io amo molto meglio di dispiacere a queste mie carni che, faccendo agio loro, io facessi cosa che potesse essere perdizione dell’anima mia, la quale il mio Salvatore ricomperò col suo prezioso sangue. — Queste parole piacquero molto al santo uomo e parvongli argomento di bene disposta mente; e poi che a ser Ciappellet
to ebbe molto commendato questa sua usanza, il cominciò a domandare se egli mai in lussuria con alcuna femina peccato avesse. Al quale ser Ciappelletto sospirando rispose: — Padre mio, di questa parte mi vergogno io di dirvene il vero, temendo di non peccare in vanagloria. — Al quale il santo frate disse: — Di’ sicuramente, ché il vero dicendo né in confessione né in altro atto si peccò giá mai. — Disse allora ser Ciappelletto: — Poi che voi di questo mi fate sicuro, ed io il vi dirò: io son cosí vergine come io uscii del corpo della mamma mia. — O benedetto sii tu da Dio! — disse il frate — come bene hai fatto! E faccendolo hai tanto piú meritato, quanto, volendo, avevi piú d’arbitrio di fare il contrario che non abbiam noi e qualunque altri son quegli che sotto alcuna regola son costretti. — Ed appresso questo, il domandò se nel peccato della gola aveva a Dio dispiaciuto. Al quale, sospirando forte, ser Ciappelletto rispose del sí, e molte volte: per ciò che, con ciò fosse cosa che egli, oltre alli digiuni delle quaresime che nell’anno si fanno dalle divote persone, ogni settimana almeno tre dí fosse uso di digiunare in pane ed in acqua, con quello diletto e con quello appetito l’acqua bevuta aveva, e spezialmente quando avesse alcuna fatica durata o adorando o andando in pellegrinaggio, che fanno i gran bevitori il vino; e molte volte aveva disiderato d’avere cotali insalatuzze d’erbucce, come le donne fanno quando vanno in villa, ed alcuna volta gli era paruto migliore il mangiare che non pareva a lui che dovesse parere a chi digiuna per divozione, come digiunava egli. Al quale il frate disse: — Figliuol mio, questi peccati sono naturali, e sono assai leggeri, e per ciò io non voglio che tu ne gravi piú la coscienza tua che bisogni. Ad ogni uomo avviene, quantunque santissimo sia, il parergli, dopo lungo digiuno, buono il manicare, e dopo la fatica, il bere. — Oh! — disse ser Ciappelletto — padre mio, non mi dite questo per confortarmi; ben sapete che io so che le cose che al servigio di Dio si fanno, si deono fare tutte nettamente e senza alcuna ruggine d’animo: e chiunque altramenti fa, pecca. — Il frate, contentissimo, disse: — Ed io son contento che così ti cappia nell’animo, e piacemi forte la tua pura e buona coscienza in ciò. Ma dimmi: in avarizia hai tu peccato, disiderando piú che il convenevole o tenendo quello che tu tener non dovesti? — Al quale ser Ciappelletto disse: — Padre mio, non vorrei che voi guardaste perché io sia in casa di questi usurieri: io non ci ho a far nulla, anzi c’era venuto per dovergli ammonire e gastigare e tôrgli da questo abominevole guadagno; e credo mi sarebbe venuto fatto, se Iddio non m’avesse cosí visitato. Ma voi dovete sapere che mio padre mi lasciò ricco uomo, del cui avere, come egli fu morto, diedi la maggior parte per Dio; e poi, per sostentare la vita mia e per potere aiutare i poveri di Cristo, ho fatte mie piccole mercatantie ed in quelle ho disiderato di guadagnare, e sempre co’ poveri di Dio, quello che guadagnato ho, ho partito per mezzo, la mia metá convertendo ne’ miei bisogni, l’altra metá dando loro: e di ciò m’ha sí bene il mio Creatore aiutato, che io ho sempre di bene in meglio fatti i fatti miei. — Bene hai fatto, — disse il frate — ma come ti se’ tu spesso adirato? — Oh! — disse ser Ciappelletto — cotesto vi dico io bene che io ho molto spesso fatto. E chi se ne potrebbe tenere, veggendo tutto il dí gli uomini fare le sconce cose, non servare i comandamenti di Dio, non temere i suoi giudici? Egli sono state assai volte il dí che io vorrei piú tosto essere stato morto che vivo, veggendo i giovani andar dietro alle vanitá ed udendogli giurare e spergiurare, andare alle taverne, non visitar le chiese e seguir piú tosto le vie del mondo che quella di Dio. — Disse allora il frate: — Figliuol mio, cotesta è buona ira, né io per me te ne saprei penitenza imporre. Ma per alcun caso avrebbeti l’ira potuto inducere a fare alcuno omicidio o a dire villania a persona o a fare alcuna altra ingiuria? — A cui ser Ciappelletto rispose: — Oimè! messere, o voi mi parete uomo di Dio: come dite voi coteste parole? O se io avessi avuto pure un pensieruzzo di fare qualunque s’è l’una delle cose che voi dite, credete voi che io creda che Iddio m’avesse tanto sostenuto? Coteste son cose da farle gli scherani ed i rei uomini, de’ quali qualunque ora io n’ho mai veduto alcuno, sempre ho detto: «Va’, che Iddio ti converta». — Allora disse il frate: — Or mi di’, figliuol mio, che benedetto sii tu da Dio: hai tu mai testimonianza niuna falsa detta contra alcuno o detto mal d’altrui o tolte dell’altrui cose senza piacere di colui di cui sono? — Mai messer sí, — rispose ser Ciappelletto — che io ho detto male d’altrui, per ciò che io ebbi giá un mio vicino che al maggior torto del mondo non faceva altro che batter la moglie, sí che io dissi una volta male di lui alli parenti della moglie, sí gran pietá mi venne di quella cattivella la quale egli, ogni volta che bevuto avea troppo, conciava come Iddio vel dica. — Disse allora il frate: — Or bene, tu mi di’ che se’ stato mercatante: ingannasti tu mai persona cosí come fanno i mercatanti? — Gnaffe, — disse ser Ciappelletto — messer sí, ma io non so chi egli si fu: se non che uno avendomi recati denari che egli mi doveva dare di panno che io gli avea venduto, ed io messigli in una mia cassa senza annoverare, ivi bene ad un mese trovai che egli erano quattro piccioli piú che esser non doveano; per che, non riveggendo colui ed avendogli serbati bene uno anno per rendergliele, io gli diedi per l’amor di Dio. — Disse il frate: — Cotesta fu piccola cosa, e facesti bene a farne quello che ne facesti. — Ed oltre a questo, il domandò il santo frate di molte altre cose, delle quali di tutte rispose a questo modo. E volendo egli giá procedere all’assoluzione, disse ser Ciappelletto: — Messere, io ho ancora alcun peccato che io non v’ho detto. — Il frate il domandò quale, ed egli disse: — Io mi ricordo che io feci al fante mio, un sabato dopo nona, spazzare la casa e non ebbi alla santa domenica quella reverenza che io dovea. — Oh! — disse il frate — figliuol mio, cotesta è leggèr cosa. — No, — disse ser Ciappelletto — non dite leggèr cosa, ché la domenica è troppo da onorare, però che in cosí fatto dí risuscitò da morte a vita il nostro Signore. — Disse allora il frate: — O altro hai tu fatto? — Messer sí, — rispose ser Ciappelletto — che io, non avvedendomene, sputai una volta nella chiesa di Dio. — Il frate cominciò a sorridere, e disse: — Figliuol mio, cotesta non è cosa da curarsene: noi, che siamo religiosi, tutto il dí vi sputiamo. — Disse allora ser Ciappelletto: — E voi fate gran villania, per ciò che niuna cosa si convien tener netta come il santo tempio, nel quale si rende sacrificio a Dio. — Ed in brieve de’ cosí fatti ne gli disse molti: ed ultimamente cominciò a sospirare ed appresso a piagner forte, come colui che il sapeva troppo ben fare quando volea. Disse il santo frate: — Figliuol mio, che hai tu? — Rispose ser Ciappelletto: — Oimè! messere, che un peccato m’è rimaso del quale io non mi confessai mai, sì gran vergogna ho di doverlo dire, ed ogni volta che io me ne ricordo piango come voi vedete, e parmi esser molto certo che Iddio mai non avrá misericordia di me per questo peccato. — Allora il santo frate disse: — Va’ via, figliuolo, che è ciò che tu di’? Se tutti i peccati che furon mai fatti da tutti gli uomini, o che si debbon fare da tutti gli uomini mentre che il mondo durerá, fosser tutti in uno uom solo, ed egli ne fosse pentuto e contrito come io veggio te, si è tanta la benignitá e la misericordia di Dio, che, confessandogli egli, gliele perdonerebbe liberamente: e per ciò dillo sicuramente. — Disse allora ser Ciappelletto, sempre piagnendo forte: — Oimè! padre mio, il mio è troppo gran peccato, ed appena posso credere, se i vostri prieghi non ci s’adoperano, che egli mi debba mai da Dio esser perdonato. — A cui il frate disse: — Dillo sicuramente, che io ti prometto di pregare Iddio per te. — Ser Ciappelletto pur piagnea e nol dicea, ed il frate pure il confortava a dire. Ma poi che ser Ciappelletto piagnendo ebbe una grandissima pezza tenuto il frate cosí sospeso, ed egli gittò un gran sospiro e disse: — Padre mio, poscia che voi mi promettete di pregare Iddio per me, ed io il vi dirò: sappiate che, quando io era piccolino, io bestemmiai una volta la mamma mia. — E cosí detto, rincominciò a piagner forte. Disse il frate: — O figliuol mio, or párti questo cosí gran peccato? Oh! gli uomini bestemmiano tutto il giorno Iddio, e si perdona egli volentieri a chi si pente d’averlo bestemmiato: e tu non credi che egli perdoni a te questo
? Non piagner, confortati, ché fermamente, se tu fossi stato un di quegli che il posero in croce, avendo la contrizione che io ti veggio, sí ti perdonerebbe egli. — Disse allora ser Ciappelletto: — Oimè! padre mio, che dite voi? La mamma mia dolce, che mi portò in corpo nove mesi il dí e la notte, e portommi in collo piú di cento volte! Troppo feci male a bestemmiarla, e troppo è gran peccato; e se voi non pregate Iddio per me, egli non mi sará perdonato. — Veggendo il frate non essere altro restato a dire a ser Ciappelletto, gli fece l’assoluzione e diedegli la sua benedizione, avendolo per santissimo uomo, sí come colui che pienamente credeva esser vero ciò che ser Ciappelletto avea detto: e chi sarebbe colui che nol credesse, veggendo uno uomo in caso di morte dir cosí? E poi, dopo tutto questo, gli disse: — Ser Ciappelletto, con l’aiuto di Dio voi sarete tosto sano: ma se pure avvenisse che Iddio la vostra benedetta e ben disposta anima chiamasse a sè, piácevi egli che il vostro corpo sia sepellito al nostro luogo? — Al quale ser Ciappelletto rispose: — Messer sí, anzi non vorrei io essere altrove, poscia che voi m’avete promesso di pregare Iddio per me: senza che, io ho avuta sempre spezial divozione al vostro ordine; e per ciò vi priego che, come voi al vostro luogo sarete, facciate che a me venga quel veracissimo corpo di Cristo il quale voi la mattina sopra l’altare consecrate, per ciò che, come che io degno non ne sia, io intendo con la vostra licenza di prenderlo, ed appresso la santa ed ultima unzione, acciò che io, se vivuto son come peccatore, almeno muoia come cristiano. — Il santo uomo disse che molto gli piacea e che egli diceva bene, e farebbe che di presente gli sarebbe apportato; e cosí fu. Li due fratelli, li quali dubitavan forte non ser Ciappelletto gl’ingannasse, s’eran posti appresso ad un tavolato il quale la camera dove ser Ciappelletto giaceva dividea da un’altra, ed ascoltando, leggermente udivano ed intendevano ciò che ser Ciappelletto al frate diceva: ed aveano alcuna volta sí gran voglia di ridere, udendo le cose le quali egli confessava d’aver fatte, che quasi scoppiavano, e tra sè talora dicevano: — Che uomo è costui, il quale né vecchiezza né infermitá né paura di morte alla qual si vede vicino, né ancora di Dio, dinanzi al giudicio del quale di qui a piccola ora s’aspetta di dovere essere, dalla sua malvagitá l’hanno potuto rimuovere, né far che egli cosí non voglia morire come egli è vivuto? — Ma pur, veggendo che sí aveva detto, che egli sarebbe a sepoltura ricevuto in chiesa, niente del rimaso si curarono. Ser Ciappelletto poco appresso si comunicò, e peggiorando senza modo, ebbe l’ultima unzione: e poco passato vespro, quel dí stesso che la buona confessione fatta avea, si morí. Per la qual cosa li due fratelli, ordinato di quello di lui medesimo come egli fosse onorevolemente sepellito e mandatolo a dire al luogo de’ frati, e che essi vi venissero la sera a far la vigilia secondo l’usanza e la mattina per lo corpo, ogni cosa a ciò opportuna disposero. Il santo frate che confessato l’avea, udendo che egli era trapassato, fu insieme col priore del luogo, e fatto sonare a capitolo, alli frati ragunati in quello mostrò ser Ciappelletto essere stato santo uomo, secondo che per la sua confessione conceputo avea: e sperando per lui Domenedio dovere molti miracoli dimostrare, persuadette loro che con grandissima reverenza e divozione quello corpo si dovesse ricevere. Alla qual cosa il priore e gli altri frati, creduli, s’accordarono: e la sera, andati tutti lá dove il corpo di ser Ciappelletto giaceva, sopra esso fecero una grande e solenne vigilia, e la mattina, tutti vestiti co’ cámisci e co’ pieviali, con li libri in mano e con le croci innanzi, cantando, andaron per questo corpo e con grandissima festa e solennitá il recarono alla lor chiesa, seguendo quasi tutto il popolo della cittá, uomini e donne; e nella chiesa postolo, il santo frate che confessato l’avea, salito in sul pergamo, di lui cominciò e della sua vita, de’ suoi digiuni, della sua virginitá, della sua simplicitá ed innocenza e santitá maravigliose cose a predicare, tra l’altre cose narrando quello che ser Ciappelletto per lo suo maggior peccato piagnendo gli avea confessato, e come esso appena gli avea potuto metter nel capo che Iddio gliele dovesse perdonare, da questo volgendosi a riprendere il popolo che ascoltava, dicendo: — E voi, maladetti da Dio, per ogni fuscello di paglia che vi si volge tra’ piedi bestemmiate Iddio e la Madre e tutta la corte di paradiso! — Ed oltre a queste, molte altre cose disse della sua lealtá e della sua puritá, ed in brieve con le sue parole, alle quali era dalla gente della contrada data intera fede, si il mise nel capo e nella divozion di tutti coloro che v’erano, che, poi che fornito fu l’uficio, con la maggior calca del mondo da tutti fu andato a basciargli i piedi e le mani, e tutti i panni gli furono indosso stracciati, tenendosi beato chi pure un poco di quegli potesse avere: e convenne che tutto il giorno cosí fosse tenuto, acciò che da tutti potesse essere veduto e visitato. Poi, la vegnente notte, in un’arca di marmo sepellito fu onorevolemente in una cappella, ed a mano a mano il dí seguente vi cominciarono le genti ad andare e ad accender lumi e ad adorarlo, e per conseguente a botarsi e ad appiccarvi le imagini della cera secondo la promession fatta. Ed intanto crebbe la fama della sua santitá e divozione a lui, che quasi niuno era che in alcuna avversitá fosse, che ad altro santo che a lui si botasse, e chiamaronlo e chiamano san Ciappelletto, ed affermano, molti miracoli Iddio aver mostrati per lui e mostrare tutto giorno a chi divotamente si raccomanda a lui. Cosí adunque visse e morí ser Cepparello da Prato e santo divenne, come avete udito; il quale negar non voglio, esser possibile lui esser beato nella presenza di Dio, per ciò che, come che la sua vita fosse scellerata e malvagia, egli potè in su lo stremo aver sí fatta contrizione, che per avventura Iddio ebbe misericordia di lui e nel suo regno il ricevette: ma per ciò che questo n’è occulto, secondo quello che ne può apparire ragiono, e dico, costui piú tosto dovere essere nelle mani del diavolo in perdizione che in paradiso. E se cosí è, grandissima si può la benignitá di Dio conoscere verso noi, la quale non al nostro errore ma alla puritá della fèri guardando, cosí faccendo noi nostro mezzano un suo nemico, amico credendolo, ci esaudisce, come se ad uno veramente santo per mezzano della sua grazia ricorressimo. E per ciò, acciò che noi per la sua grazia nelle presenti avversitá ed in questa compagnia cosí lieta siamo sani e salvi servati, lodando il suo nome nel quale cominciata l’abbiamo, lui in reverenza avendo, ne’ nostri bisogni gli ci raccomanderemo, sicurissimi d’essere uditi. — E qui si tacque.