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Collected Works of Giovanni Boccaccio

Page 298

by Giovanni Boccaccio


  Novella decima

  [X]

  ALIBECH DIVIEN ROMITA, a cui Rustico monaco insegna rimettere il diavolo in inferno; poi, quindi tolta, diventa moglie di Neerbale.

  Dioneo, che diligentemente la novella della reina ascoltata avea, sentendo che finita era e che a lui solo restava il dire, senza comandamento aspettare, sorridendo cominciò a dire:

  Graziose donne, voi non udiste forse mai dire come il diavolo si rimetta in inferno, e per ciò, senza partirmi guari dall’effetto che voi tutto questo di ragionato avete, il vi vo’ dire: forse ancora ne potrete guadagnar l’anima avendolo apparato, e potrete anche conoscere che, quantunque Amore i lieti palagi e le morbide camere piú volentieri che le povere capanne abiti, non è egli per ciò che alcuna volta esso tra’ folti boschi e tra le rigide alpi e nelle diserte spelunche non faccia le sue forze sentire; il perché comprender si può, alla sua potenza essere ogni cosa suggetta.

  Adunque, venendo al fatto, dico che nella cittá di Capsa in Barberia fu giá un ricchissimo uomo il quale tra alcuni altri suoi figliuoli aveva una figlioletta bella e gentilesca il cui nome fu Alibech, la quale, non essendo cristiana ed udendo a molti cristiani che nella cittá erano molto commendare la cristiana fede ed il servire a Dio, un dí ne domandò alcuno, in che maniera e con meno impedimento a Dio si potesse servire. Il quale le rispose che coloro meglio a Dio servivano che piú dalle cose del mondo fuggivano, come coloro facevano che nelle solitudini de’ diserti di Tebaida andati se n’erano. La giovane, che semplicissima era e d’etá forse di quattordici anni, non mossa da ordinato disidèro ma da un cotal fanciullesco appetito, senza altro farne ad alcuna persona sentire, la seguente mattina ad andare verso il diserto di Tebaida nascosamente tutta sola si mise: e con gran fatica di lei, durando l’appetito, dopo alcun dí a quelle solitudini pervenne, e veduta di lontano una casetta, a quella n’andò, dove un santo uomo trovò sopra l’uscio, il quale, maravigliandosi di quivi vederla, la domandò quello che ella andasse cercando. La quale rispose che, spirata da Dio, andava cercando d’essere al suo servigio, ed ancora chi le ‘nsegnasse come servire gli si convenia. Il valente uomo, veggendola giovane ed assai bella, temendo non il dimonio, se egli la ritenesse, lo ‘ngannasse, le commendò la sua buona disposizione, e dandole alquanto da mangiare radici d’erbe e pomi salvatichi e datteri, e bere acqua, le disse: — Figliuola mia, non guari lontan di qui è un santo uomo il quale di ciò che tu vai cercando è molto migliore maestro che io non sono: a lui te n’andrai. — E misela nella via: ed ella, pervenuta a lui ed avute da lui queste medesime parole, andata piú avanti, pervenne alla cella d’un romito giovane, assai divota persona e buona, il cui nome era Rustico, e quella domanda gli fece che agli altri aveva fatta. Il quale, per volere fare della sua fermezza una gran pruova, non come gli altri la mandò via o piú avanti, ma seco la ritenne nella sua cella; e venuta la notte, un lettuccio di frondi di palma le fece da una parte, e sopra quello le disse si riposasse. Questo fatto, non preser guari d’indugio le tentazioni a dar battaglia alle forze di costui; il quale, trovandosi di gran lunga ingannato, da quelle senza troppi assalti voltò le spalle e rendessi per vinto: e lasciati stare dall’una delle parti i pensier santi e l’orazioni e le discipline, a recarsi per la memoria la giovanezza e la bellezza di costei incominciò, ed oltre a questo, a pensar che via e che modo egli dovesse con lei tenere, acciò che essa non s’accorgesse, lui come uomo dissoluto pervenire a quello che egli di lei disiderava. E tentato primieramente con certe domande, lei non avere mai uomo conosciuto conobbe, e cosí esser semplice come parea; per che s’avvisò come, sotto spezie di servire a Dio, lei dovesse recare a’ suoi piaceri. E primieramente con molte parole le mostrò quanto il diavolo fosse nemico di Domenedio, ed appresso le diede ad intendere che quel servigio che piú si poteva far grato a Dio si era rimettere il diavolo in inferno, nel quale Domenedio l’aveva dannato. La giovanetta il domandò come questo si facesse; alla quale Rustico disse: — Tu il saprai tosto, e per ciò farai quello che a me far vedrai. — E cominciossi a spogliare quegli pochi vestimenti che avea, e rimase tutto ignudo, e cosí ancora fece la fanciulla; e posesi inginocchione a guisa che adorar volesse e di rimpetto a sé fece star lei. E cosí stando, essendo Rustico piú che mai nel suo disidèro acceso per lo vederla cosí bella, venne la resurrezion della carne; la quale riguardando Alibech e maravigliatasi, disse: — Rustico, quella che cosa è che io ti veggio, che cosí si pigne in fuori, e non l’ho io? — O figliuola mia, — disse Rustico — questo è il diavolo di che io t’ho parlato; e vedi tu ora: egli mi dá grandissima molestia, tanto che io appena la posso sofferire. — Allora disse la giovane: — O lodato sia Iddio, ché io veggio che io sto meglio che non stai tu, ché io non ho cotesto diavolo io. — Disse Rustico: — Tu di’ vero, ma tu hai un’altra cosa, che non l’ho io, ed haila in iscambio di questo. — Disse Alibech: — O che? — A cui Rustico disse: — Hai il ninferno, e dicoti che io mi credo che Iddio t’abbia qui mandata per la salute dell’anima mia, per ciò che, se questo diavolo pur mi dará questa noia, ove tu vogli aver di me tanta pietá e sofferire che io in inferno il rimetta, tu mi darai grandissima consolazione ed a Dio farai grandissimo piacere e servigio, se tu per quello fare in queste parti venuta se’, che tu di’. — La giovane di buona fede rispose: — O padre mio, poscia che io ho il ninferno, sia pure quando vi piacerá. — Disse allora Rustico: — Figliuola mia, benedetta sii tu! Andiamo adunque e rimettianlovi, sí che egli posciá mi lasci stare. — E cosí detto, menata la giovane sopra un de’ lor letticelli, le ‘nsegnò come starsi dovesse a dovere incarcerare quel maladetto da Dio. La giovane, che mai piú non aveva in inferno messo diavolo alcuno, per la prima volta sentí un poco di noia; per che ella disse a Rustico: — Per certo, padre mio, mala cosa dèe essere questo diavolo, e veramente nemico di Dio, ché ancora al ninferno, non che altrui, duole quando egli v’è dentro rimesso. — Disse Rustico: — Figliuola, egli non avverrá sempre cosí. — E per fare che questo non avvenisse, da sei volte anzi che di sul letticel si movessero vel rimisero, tanto che per quella volta gli trassero sí la superbia del capo, che egli si stette volentieri in pace. Ma ritornatagli poi nel seguente tempo piú volte, e la giovane obediente sempre a trargliele si disponesse, avvenne che il giuoco le cominciò a piacere, e cominciò a dire a Rustico: — Ben veggio che il vero dicevano que’ valenti uomini in Capsa, che il servire a Dio era cosí dolce cosa; e per certo io non mi ricordo che mai alcuna altra io ne facessi che di tanto diletto e piacer mi fosse, quanto è il rimettere il diavolo in inferno: e per ciò io giudico, ogni altra persona che ad altro che a servire a Dio attende essere una bestia. — Per la qual cosa essa spesse volte andava a Rustico e gli dicea: — Padre mio, io son qui venuta per servire a Dio, e non per istare oziosa; andiamo a rimettere il diavolo in inferno. — La qual cosa faccendo, diceva ella alcuna volta: — Rustico, io non so perché il diavolo si fugga di ninferno: ché, se egli vi stesse cosí volentieri come il ninferno il riceve e tiene, egli non se n’uscirebbe mai. — Cosí adunque invitando spesso la giovane Rustico ed al servigio di Dio confortandolo, sí la bambagia del farsetto tratta gli avea, che egli a tale ora sentiva freddo che uno altro sarebbe sudato; e per ciò egli incominciò a dire alla giovane che il diavolo non era da gastigare né da rimettere in inferno se non quando egli per superbia levasse il capo: — E noi, per la grazia di Dio, l’abbiamo sí ingannato, che egli priega Iddio di starsi in pace. — E cosí alquanto impose di silenzio alla giovane; la qual, poi che vide che Rustico non la richiedeva a dovere il diavolo rimettere in inferno, gli disse un giorno: — Rustico, se il diavol tuo è gastigato e piú non ti dá noia, me il mio ninferno non lascia stare; per che tu farai bene che tu col tuo diavolo aiuti ad attutare la rabbia al mio ninferno come io col mio ninferno ho aiutato a trarre la superbia al tuo diavolo. — Rustico, che di radici d’erba e d’acqua vivea, poteva male rispondere alle poste: e dissele che troppi diavoli vorrebbono essere a potere il ninferno attutare, ma che egli ne farebbe ciò che per lui si potesse: e cosí alcuna volta le sodisfaceva, ma sí era di rado, che altro non era che gittare
una fava in bocca al leone; di che la giovane, non parendole tanto servire a Dio quanto voleva, mormorava anzi che no. Ma mentre che tra il diavolo di Rustico ed il ninferno d’Alibech era, per troppo disidèro e per men potere, questa quistione, avvenne che un fuoco s’apprese in Capsa, il quale nella propria casa arse il padre d’Alibech con quanti figliuoli ed altra famiglia avea; per la qual cosa Alibech d’ogni suo bene rimase erede. Laonde un giovane chiamato Neerbale, avendo in cortesia tutte le sue facultá spese, sentendo costei esser viva, messosi a cercarla, e ritrovatala avanti che la corte i beni stati del padre, sí come d’uomo senza erede morto, occupasse, con gran piacere di Rustico e contro al voler di lei la rimenò in Capsa e per moglie la prese, e con lei insieme del gran patrimonio di lei divenne erede. Ma essendo ella domandata dalle donne di che nel diserto servisse a Dio, non essendo ancora Neerbale giaciuto con lei, rispose che il serviva di rimettere il diavolo in inferno e che Neerbale avea fatto gran peccato d’averla tolta da cosí fatto servigio. Le donne domandarono: — Come si rimette il diavolo in inferno? — La giovane tra con parole e con atti il mostrò loro; di che esse fecero si gran risa, che ancor ridono, e dissono: — Non ti dar malinconia, figliuola, no, ché egli si fa bene anche qua; Neerbale ne servirá bene con essoteco Domenedio. — Poi l’una all’altra per la cittá ridicendolo, vi ridussono in volgar motto che il piú piacevol servigio che a Dio si facesse era rimettere il diavolo in inferno; il qual motto, passato di qua da mare, ancora dura. E per ciò voi, giovani donne, alle quali la grazia di Dio bisogna, apparate a rimettere il diavolo in inferno, per ciò che egli è forte a grado a Dio e piacere delle parti, e molto bene ne può nascere e seguire.

  Conclusione

  Mille fiate o piú aveva la novella di Dioneo a rider mosse l’oneste donne, tali e sí fatte lor parevan le sue parole; per che, venuto egli al conchiuder di quella, conoscendo la reina che il termine della sua signoria era venuto, levatasi la laurea di capo, quella assai piacevolemente pose sopra la testa a Filostrato, e disse: — Tosto ci avvedremo se il lupo saprá meglio guidar le pecore che le pecore abbiano i lupi guidati. — Filostrato, udendo questo, disse ridendo: — Se mi fosse stato creduto, i lupi avrebbono alle pecore insegnato rimettere il diavolo in inferno non peggio che Rustico facesse ad Alibech; e per ciò non ne chiamate lupi, dove voi state pecore non siete: tuttavia, secondo che conceduto mi fia, io reggerò il regno commesso. — A cui Neifíle rispose: — Odi, Filostrato: voi avreste, volendo a noi insegnare, potuto apparar senno come apparò Masetto da Lamporecchio dalle monache e riaver la favella a tale ora che l’ossa senza maestro avrebbono apparato a sufolare. — Filostrato, conoscendo che falci si trovavano non meno che egli avesse strali, lasciato stare il motteggiare, a darsi al governo del regno commesso cominciò: e fattosi il siniscalco chiamare, a che punto le cose fossero tutte volle sentire, ed oltre a questo, secondo che avvisò che bene stesse e che dovesse sodisfare alla compagnia, per quanto la sua signoria dovea durare, discretamente ordinò; e quindi, rivolto alle donne, disse:

  Amorose donne, per la mia disavventura, poscia che io ben da mal conobbi, sempre per la bellezza d’alcuna di voi stato sono ad Amor suggetto, né l’essere umile né l’essere obediente né il seguirlo, in ciò che per me s’è conosciuto, alla seconda in tutti i suoi costumi m’è valuto che io prima per altro abbandonato e poi non sia sempre di male in peggio andato, e così credo che io andrò di qui alla morte: e per ciò non d’altra materia domane mi piace che si ragioni se non di quello che a’ miei fatti è piú conforme, cioè di coloro li cui amori ebbero infelice fine, per ciò che io a lungo andar l’aspetto infelicissimo, né per altro il nome per lo quale voi mi chiamate, da tale che seppe ben che si dire, mi fu imposto. — E così detto, in piè levatosi, per infino all’ora della cena licenziò ciascuno.

  Era sì bello il giardino e sì dilettevole, che alcuna non vi fu che eleggesse di quello uscire per piú piacere altrove dover sentire: anzi, non faccendo il sol giá tiepido alcuna noia a seguire, i cavriuoli ed i conigli e gli altri animali che erano per quello e che a lor sedenti forse cento volte, per mezzo loro saltando, eran venuti a dar noia, si dierono alcune a seguitare. Dioneo e la Fiammetta cominciarono a cantare di messer Guiglielmo e della Dama del vergiú, Filomena e Panfilo si diedono a giucare a scacchi: e cosí, chi una cosa e chi altra faccendo, fuggendosi il tempo, l’ora della cena appena aspettata sopravvenne; per che, messe le tavole dintorno alla bella fonte, quivi con grandissimo diletto cenaron la sera. Filostrato, per non uscir del cammin tenuto da quelle che reine avanti a lui erano state, come levate furon le tavole, cosí comandò che la Lauretta una danza prendesse e dicesse una canzone; la qual disse: — Signor mio, dell’altrui canzoni io non so, né delle mie alcuna n’ho alla mente che sia assai convenevole a cosí lieta brigata; se voi di quelle che io so volete, io ne dirò volentieri. — Alla quale il re disse: — Niuna tua cosa potrebbe essere altro che bella e piacevole, e per ciò, tale quale tu l’hai, cotale la di’. — La Lauretta allora, con voce assai soave, ma con maniera alquanto pietosa, rispondendo l’altre, cominciò cosí:

 

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