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Collected Works of Giovanni Boccaccio

Page 302

by Giovanni Boccaccio


  Novella terza

  [III]

  TRE GIOVANI AMANO tre sorelle e con loro si fuggono in Creti; la maggiore per gelosia il suo amante uccide; la seconda, concedendosi al duca di Creti, scampa da morte la prima, l’amante della quale l’uccide e con la prima si fugge; ènne incolpato il terzo amante con la terza sirocchia, e presi il confessano e per tema di morire con moneta la guardia corrompono, e fuggonsi poveri a Rodi ed in povertá quivi muoiono.

  Filostrato, udita la fine del novellar di Pampinea, sopra se stesso alquanto stette e poi disse verso di lei: — Un poco di buono e che mi piacque fu nella fine della vostra novella, ma troppo piú vi fu innanzi a quella da ridere, il che avrei voluto che stato non vi fosse. — Poi, alla Lauretta voltato, disse: — Donna, seguite appresso con una migliore, se esser può. — La Lauretta ridendo disse: — Troppo siete contro agli amanti crudele, se pur malvagio fine disiderate di loro: ed io per

  ubidirvi ne racconterò una di tre, li quali igualmente mal capitarono, poco del loro amore essendo goduti. — E cosí detto, incominciò: Giovani donne, sí come voi apertamente potete conoscere, ogni vizio può in gravissima noia tornar di colui che l’usa e molte volte d’altrui; e tra gli altri che con piú abbandonate redine ne’ nostri pericoli ne trasporta, mi pare che l’ira sia quello; la quale niuna altra cosa è che un movimento subito ed inconsiderato, da sentita tristizia sospinto, il quale, ogni ragion cacciata e gli occhi della mente avendo di tenebre offuscati, in ferventissimo furore accende l’anima nostra. E come che questo sovente negli uomini avvenga, e piú in uno che in uno altro, nondimeno giá con maggior danni s’è nelle donne veduto, per ciò che piú leggermente in quelle s’accende, ed árdevi con fiamma piú chiara e con meno rattenimento le sospigne. Né è di ciò maraviglia: per ciò che, se ragguardar vorremo, vedremo che il suo fuoco di sua natura piú tosto nelle leggère e morbide cose s’apprende che nelle dure e piú gravanti; e noi pur siamo, non l’abbiano gli uomini a male, piú dilicate che essi non sono, e molto piú mobili. Laonde, veggendoci naturalmente a ciò inchinevoli, ed appresso ragguardato come la nostra mansuetudine e benignitá sia di gran riposo e di piacere agli uomini co’ quali a costumare abbiamo, e cosí l’ira ed il furore essere di gran noia e di pericolo, acciò che da quella con piú forte petto ci guardiamo, l’amor di tre giovani e d’altrettante donne, come di sopra dissi, per l’ira d’una di loro di felice essere divenuto infelicissimo intendo con la mia novella mostrarvi.

  Marsilia, sí come voi sapete, è in Provenza, sopra la marina posta, antica e nobilissima cittá, e giá fu di ricchi uomini e di gran mercatanti piú copiosa che oggi non si vede; tra’ quali ne fu un chiamato N’Arnald Civada, uomo di nazione infima ma di chiara fede e leal mercatante, senza misura di possessioni e di denari ricco, il quale d’una sua donna avea piú figliuoli, de’ quali tre n’erano femine, ed eran di tempo maggiori che gli altri che maschi erano. Delle quali le due, nate ad un corpo, erano d’etá di quindici anni, la terza avea quattordici; né altro s’attendeva per li loro parenti a maritarle che la tornata di N’Arnald, il qual con sua mercatantia era andato in Ispagna. Erano i nomi delle due prime, dell’una Ninetta e dell’altra Maddalena; la terza era chiamata Bertella. Della Ninetta era un giovane gentile uomo, avvegna che povero fosse, chiamato Restagnone, innamorato quanto piú potea, e la giovane di lui; e si avevan saputo adoperare, che, senza saperlo alcuna persona del mondo, essi godevano del loro amore: e giá buona pezza goduti n’erano, quando avvenne che due giovani compagni, de’ quali l’uno era chiamato Folco e l’altro Ughetto, morti i padri loro ed essendo rimasi ricchissimi, l’un della Maddalena e l’altro della Bertella s’innamorarono. Della qual cosa avvedutosi Restagnone, essendogli stato dalla Ninetta mostrato, pensò di potersi ne’ suoi difetti adagiare per lo costoro amore, e con lor presa dimestichezza, or l’uno ed or l’altro e talvolta ammenduni gli accompagnava a vedere le lor donne e la sua. E quando dimestico assai ed amico di costoro esser gli parve, un giorno in casa sua chiamatigli, disse loro: — Carissimi giovani, la nostra usanza vi può aver renduti certi quanto sia l’amore che io vi porto, e che io per voi adopererei quello che io per me medesimo adoperassi: e per ciò che io molto v’amo, quello che nell’animo caduto mi sia intendo di dimostrarvi, e voi appresso con meco insieme quel partito ne prenderemo che vi parrá il migliore. Voi, se le vostre parole non mentono, e per quello ancora che ne’ vostri atti e di dí e di notte mi pare aver compreso, di grandissimo amore delle due giovani amate da voi ardete, ed io della terza, loro sorella; al quale ardore, ove voi vi vogliate accordare, mi dá il cuore di trovare assai dolce e piacevole rimedio, il quale è questo. Voi siete ricchissimi giovani, quello che non sono io: dove voi vogliate recare le vostre ricchezze in uno e me fare terzo posseditore con voi insieme di quelle e diliberare in che parte del mondo noi vogliamo andare a vivere in lieta vita con quelle, senza alcun fallo mi dá il cuor di fare che le tre sorelle, con gran parte di quello del padre loro, con essonoi dove noi andarne vorremo ne verranno, e quivi ciascun con la sua a guisa di tre fratelli viver potremo li piú contenti uomini che altri che al mondo sieno. A voi omai sta il prender partito in volervi di ciò consolare, o lasciarlo. — Li due giovani, che oltre modo ardevano, udendo che le lor giovani avrebbono, non penar troppo a diliberarsi, ma dissero, dove questo seguir dovesse, che essi erano apparecchiati di cosí fare. Restagnone, avuta questa risposta da’ giovani, ivi a pochi giorni si trovò con la Ninetta, alla quale non senza gran malagevolezza andar poteva: e poi che alquanto con lei fu dimorato, ciò che co’ giovani detto avea le ragionò, e con molte ragion s’ingegnò di farle questa impresa piacere. Ma poco malagevole gli fu, per ciò che essa molto piú di lui disiderava di poter con lui esser senza sospetto: per che, liberamente rispostogli che le piaceva e che le sorelle, e massimamente in questo, quello farebbono che ella volesse, gli disse che ogni cosa opportuna intorno a ciò quanto piú tosto potesse ordinasse. Restagnone a’ due giovani tornato, li quali molto a ciò che ragionato avea loro il sollecitavano, disse loro che dalla parte delle lor donne l’opera era messa in assetto: e tra sé diliberati di doverne in Creti andare, vendute alcune possessioni le quali avevano, sotto titolo di volere co’ denari andar mercatando, e d’ogni altra lor cosa fatti denari, una saettia comperarono e quella segretamente armarono di gran vantaggio: ed aspettarono il termine dato. D’altra parte, la Ninetta, che del disidèro delle sorelle sapeva assai, con dolci parole in tanta volontá di questo fatto l’accese, che esse non credevano tanto vivere che a ciò pervenissero. Per che, venuta la notte che salire sopra la saettia dovevano, le tre sorelle, aperto un gran cassone del padre loro, di quello grandissima quantitá di denari e di gioie trassono, e con esse di casa tutte e tre tacitamente uscite, secondo l’ordine dato, li lor tre amanti che l’aspettavan trovarono; con li quali senza alcuno indugio sopra la saettia montate, diêr de’ remi in acqua ed andâr via, e senza punto rattenersi in alcun luogo, la seguente sera giunsero a Genova, dove i novelli amanti gioia e piacere primieramente presero del loro amore. E rinfrescatisi di ciò che avean bisogno, andaron via, e d’un porto in uno altro, anzi che l’ottavo di fosse, senza alcuno impedimento pervennero in Creti, dove grandissime e belle possessioni comperarono, alle quali assai vicini di Candia fecero bellissimi abituri e dilettevoli; e quivi con molta famiglia, con cani e con uccelli e con cavalli, in conviti ed in feste ed in gioia con le lor donne i piú contenti uomini del mondo a guisa di baroni cominciarono a vivere. Ed in tal maniera dimorando, avvenne; sí come noi veggiamo tutto il giorno avvenire che, quantunque le cose molto piacciano, avendone soperchia copia rincrescono; che a Restagnone, il quale molto amata avea la Ninetta, potendola egli senza alcun sospetto ad ogni suo piacere avere, gl’incominciò a rincrescere, e per conseguente a mancar verso lei l’amore. Ed essendogli ad una festa sommamente piaciuta una giovane del paese, bella e gentil donna, e quella con ogni studio seguitando, cominciò per lei a far maravigliose cortesie e feste; di che la Ninetta accorgendosi, entrò di lui in tanta gelosia, che egli non poteva andare un passo che ella noi risapesse, ed appresso con parole e con crucci lui
e sé non ne tribolasse. Ma cosí come la copia delle cose genera fastidio, cosí l’esser le disiderate negate multiplica l’appetito: e cosí i crucci della Ninetta le fiamme del nuovo amore di Restagnone accrescevano; e come che in processo di tempo s’avvenisse, o che Restagnone l’amistá della donna amata avesse o no, la Ninetta, chi che gliele rapportasse, l’ebbe per fermo; di che ella in tanta tristizia cadde, e di quella in tanta ira e per conseguente in tanto furor trascorse, che, rivoltato l’amore il quale a Restagnon portava in acerbo odio, accecata dalla sua ira, s’avvisò con la morte di Restagnone l’onta che ricever l’era paruta vendicare. Ed avuta una vecchia greca gran maestra di compor veleni, con promesse e con doni a fare un’acqua mortifera la condusse, la quale essa, senza altramenti consigliarsi, una sera a Restagnon riscaldato e che di ciò non si guardava die’ bere. La potenza di quella fu tale, che avanti che il matutino venisse l’ebbe ucciso; la cui morte sentendo Folco ed Ughetto e le lor donne, senza sapere che di veleno fosse morto, insieme con la Ninetta amaramente piansero ed onorevolemente il fecero sepellire. Ma non dopo molti giorni avvenne che per altra malvagia opera fu presa la vecchia che alla Ninetta l’acqua avvelenata composta avea, la quale tra gli altri suoi mali, martoriata, confessò questo, pienamente mostrando ciò che per quello avvenuto ne fosse; di che il duca di Creti, senza alcuna cosa dirne, tacitamente una notte fu dintorno al palagio di Folco, e senza romore o contraddizione alcuna, presa ne menò la Ninetta, dalla quale, senza alcun martorio, prestissimamente ciò che udir volle, ebbe della morte di Restagnone. Folco ed Ughetto occultamente dal duca avean sentito, e da lor le lor donne, perché presa la Ninetta fosse; il che forte dispiacque loro, ed ogni studio ponevano in far che dal fuoco la Ninetta dovesse campare, al quale avvisavano che giudicata sarebbe, sí come colei che molto ben guadagnato l’avea: ma tutto pareva niente, per ciò che il duca pur fermo a volerne far giustizia stava. La Maddalena, la quale bella giovane era e lungamente stata vagheggiata dal duca, senza mai aver voluta far cosa che gli piacesse, imaginando che, piacendogli, potrebbe la sirocchia dal fuoco sottrarre, per un cauto ambasciadore gli significò, sé essere presta ad ogni suo comandamento, dove due cose ne dovesser seguire: la prima, che ella la sua sorella salva e libera dovesse riavere; l’altra, che questa cosa fosse segreta. Il duca, udita l’ambasciata e piaciutagli, lungamente seco pensò se fare il volesse, ed alla fine vi s’accordò, e rispose che era presto. Fatto adunque di consentimento della donna, quasi da loro informar si volesse del fatto, sostenere una notte Folco ed Ughetto, ad albergare se n’andò segretamente con la Maddalena; e fatto prima sembianti d’avere la Ninetta messa in un sacco e doverla quella notte stessa fare in mar mazzerare, seco la rimenò alla sua sorella e per prezzo di quella notte gliele donò, la mattina nel dipartirsi pregandola che quella notte, la quale prima era stata nel loro amore, non fosse l’ultima, ed oltre a questo le ‘mpose che via ne mandasse la colpevole donna, acciò che a lui non fosse biasimo o non gli convenisse da capo contro di lei incrudelire. La mattina seguente Folco ed Ughetto, avendo udito, la Ninetta la notte essere stata mazzerata, e credendolo, furon liberati: ed alla lor casa per consolar le lor donne della morte della sorella tornati, quantunque la Maddalena s’ingegnasse di nasconderla molto, pur s’accorse Folco che ella v’era; di che egli si maravigliò molto e subitamente suspicò, giá avendo sentito che il duca aveva la Maddalena amata, e domandolla come questo esser potesse, che la Ninetta quivi fosse. La Maddalena ordí una lunga favola a volergliele mostrare, poco da lui, che malizioso era, creduta, il quale a doversi dire il vero la costrinse; la quale dopo molte parole gliele disse. Folco, da dolor vinto ed in furor montato, tirata fuori una spada, lei invano mercé addomandante uccise; e temendo l’ira e la giustizia del duca, lei lasciata nella camera morta, se n’andò colá ove la Ninetta era, e con viso infintamente lieto le disse: — Tosto andianne lá dove diterminato è da tua sorella che io ti meni, acciò che piú non venghi alle mani del duca. — La qual cosa la Ninetta credendo e come paurosa disiderando di partirsi, con Folco, senza altro commiato chiedere alla sorella, essendo giá notte, si mise in via, e con que’ denari a’ quali Folco potè por mano, che furon pochi: ed alla marina andatisene, sopra una barca montarono, né mai si seppe dove arrivati si fossero. Venuto il dí seguente ed essendosi la Maddalena trovata uccisa, furono alcuni che, per invidia ed odio che ad Ughetto portavano, subitamente al duca l’ebbero fatto sentire; per la qual cosa il duca, che molto la Maddalena amava, focosamente alla casa corso, Ughetto prese e la sua donna, e loro, che di queste cose niente ancor sapeano, cioè della partita di Folco e della Ninetta, costrinse a confessar, sé insieme con Folco esser della morte della Maddalena colpevoli. Per la qual confessione costoro meritamente della morte temendo, con grande ingegno coloro che gli guardavano corruppero, dando loro una certa quantitá di denari li quali nella lor casa nascosi per li casi opportuni guardavano: e con le guardie insieme, senza avere spazio di potere alcuna lor cosa tôrre, sopra una barca montati, di notte se ne fuggirono a Rodi, dove in povertá ed in miseria vissero non gran tempo. Adunque a cosí fatto partito il folle amore di Restagnone e l’ira della Ninetta sé condussero ed altrui.

  Novella quarta

  [IV]

  GERBINO CONTRA LA fede data dal re Guiglielmo suo avolo combatte una nave del re di Tunisi per tôrre una sua figliuola; la quale uccisa da quegli che sú v’erano, loro uccide, ed a lui è poi tagliata la testa.

  La Lauretta, fornita la sua novella, taceva, e tra la brigata chi con un chi con uno altro della sciagura degli amanti si dolea, e chi l’ira della Ninetta biasimava, e chi una cosa e chi altra diceva, quando il re, quasi da profondo pensier tolto, alzò il viso e ad Elissa fe’ segno che appresso dicesse; la quale umilmente incominciò:

  Piacevoli donne, assai son coloro che credono, Amor solamente dagli occhi acceso le sue saette mandare, coloro schernendo che tener vogliono che alcun per udita si possa innamorare; li quali essere ingannati assai manifestamente apparirá in una novella la qual dire intendo, nella quale non solamente ciò la fama, senza aversi veduto giá mai, avere operato vedrete, ma ciascuno a misera morte aver condotto vi fia manifesto.

  Guiglielmo secondo, re di Cicilia, come i ciciliani vogliono, ebbe due figliuoli, l’uno maschio e chiamato Ruggeri, l’altro femina, chiamata Gostanza. Il quale Ruggeri, anzi che il padre morendo, lasciò un figliuolo nominato Gerbino, il quale, dal suo avolo con diligenza allevato, divenne bellissimo giovane e famoso in prodezza ed in cortesia. Né solamente dentro a’ termini di Cicilia stette la sua fama racchiusa, ma in varie parti del mondo sonando, in Barberia era chiarissima, la quale in quei tempi al re di Cicilia tributaria era. E tra gli altri alli cui orecchi la magnifica fama delle vertu e della cortesia del Gerbin venne, fu ad una figliuola del re di Tunisi, la qual, secondo che ciascun che veduta l’avea ragionava, era una delle piú belle creature che mai dalla natura fosse stata formata, e la piú costumata e con nobile e grande animo. La quale, volentieri de’ valorosi uomini ragionare udendo, con tanta affezione le cose valorosamente operate dal Gerbino da uno e da uno altro raccontate raccolse, e sì le piacevano, che essa, seco stessa imaginando come fatto esser dovesse, ferventemente di lui s’innamorò, e piú volentieri che d’altro di lui ragionava e chi ne ragionava ascoltava. D’altra parte, era, si come altrove, in Cicilia pervenuta la grandissima fama della bellezza parimente e del valor di lei, e non senza gran diletto né invano gli orecchi del Gerbino aveva tocchi: anzi, non meno che di lui la giovane infiammata fosse, lui di lei aveva infiammato. Per la qual cosa, infino a tanto che con onesta cagione dall’avolo d’andare a Tunisi la licenza impetrasse, disideroso oltre modo di vederla, ad ogni suo amico che lá andava imponeva che a suo potere il suo segreto e grande amor facesse, per quel modo che miglior gli paresse, sentire, e di lei novelle gli recasse. De’ quali alcuno sagacissimamente il fece, gioie da donne portandole, come i mercatanti fanno, a vedere: ed interamente l’ardore del Gerbino apertole, lui e le sue cose a’ suoi comandamenti offerse apparecchiate. La quale con lieto viso e l’ambasciadore e l’ambasciata ricevette: e rispostogli che ella
di pari amore ardeva, una delle sue piú care gioie in testimonianza di ciò gli mandò. La quale il Gerbino con tanta allegrezza ricevette, con quanta qualunque cara cosa ricever si possa, ed a lei per costui medesimo piú volte scrisse e mandò carissimi doni, con lei certi trattati tenendo da doversi, se la fortuna conceduto l’avesse, vedere e toccare. Ma andando le cose in questa guisa ed un poco piú lunghe che bisognato non sarebbe, ardendo d’una parte la giovane e d’altra il Gerbino, avvenne che il re di Tunisi la maritò al re di Granata; di che ella fu crucciosa oltre modo, pensando che non solamente per lunga distanza al suo amante s’allontanava, ma che quasi del tutto tolta gli era: e se modo veduto avesse, volentieri, acciò che questo avvenuto non fosse, fuggita si sarebbe dal padre e venutasene al Gerbino. Similmente il Gerbino, questo maritaggio sentendo, senza misura ne viveva dolente, e seco spesso pensava, se modo veder potesse, di volerla tôrre per forza, se avvenisse che per mare a marito n’andasse. Il re di Tunisi, sentendo alcuna cosa di questo amore e del proponimento del Gerbino, e del suo valore e della potenza dubitando, venendo il tempo che mandare ne la dovea, al re Guiglielmo mandò significando ciò che fare intendeva, e che sicurato da lui che né dal Gerbino né da altri per lui in ciò impedito sarebbe, lo ‘ntendeva di fare. Il re Guiglielmo, che vecchio signore era né dello ‘nnamoramento del Gerbino aveva alcuna cosa sentita, non imaginandosi che per questo addomandata fosse tal sicurtá, liberamente la concedette ed in segno di ciò mandò al re di Tunisi un suo guanto. Il quale, poi che la sicurtá ricevuta ebbe, fece una grandissima e bella nave nel porto di Cartagine apprestare, e fornirla di ciò che bisogno aveva a chi su vi doveva andare, ed ornarla ed acconciarla, per sú mandarvi la figliuola in Granata: né altro aspettava che tempo. La giovane donna, che tutto questo sapeva e vedeva, occultamente un suo servidore mandò a Palermo ed imposegli che il bel Gerbino da sua parte salutasse e gli dicesse come ella infra pochi di era per andarne in Granata; per che ora si parrebbe se cosí fosse valente uomo come si diceva e se cotanto l’amasse quanto piú volte significato l’avea. Costui, a cui imposta fu, ottimamente fe’ l’ambasciata, ed a Tunisi ritornossi. Gerbino, questo udendo, e sappiendo che il re Guiglielmo suo avolo data avea la sicurtá al re di Tunisi, non sapeva che farsi: ma pur, da amor sospinto, avendo le parole della donna intese e per non parer vile, andatosene a Messina, quivi prestamente fece due galee sottili armare, e messivi su di valenti uomini, con esse sopra la Sardigna n’andò, avvisando quindi dovere la nave della donna passare. Né fu di lungi l’effetto al suo avviso, per ciò che pochi di quivi fu stato, che la nave con poco vento non guari lontana al luogo dove aspettandola riposto s’era, sopravvenne. La qual veggendo Gerbino, a’ suoi compagni disse: — Signori, se voi cosí valorosi siete come io vi tengo, niuno di voi senza aver sentito o sentire amore credo che sia, senza il quale, sí come io meco medesimo estimo, niun mortal può alcuna vertu o bene in sé avere; e se innamorati stati siete o siete, leggèr cosa vi lía comprendere il mio disio. Io amo: Amor m’indusse a darvi la presente fatica; e ciò che io amo nella nave che qui davanti ne vedete dimora, la quale, insieme con quella cosa che io piú disidero, è piena di grandissime ricchezze, le quali, se valorosi uomini siete, con poca fatica, virilmente combattendo, acquistar possiamo; della qual vittoria io non cerco che in parte mi venga se non una donna, per lo cui amore io muovo l’armi; ogni altra cosa sia vostra liberamente infin da ora. Andiamo adunque, e bene avventurosamente assagliamo la nave; Iddio, alla nostra impresa favorevole, senza vento prestarle la ci tien ferma. — Non erano al bel Gerbino tante parole bisogno, per ciò che i messinesi che con lui erano, vaghi della rapina, giá con l’animo erano a far quello di che il Gerbino gli confortava con le parole; per che, fatto un grandissimo romore, nella fine del suo parlare, che cosí fosse, le trombe sonarono, e prese l’armi, dierono de’ remi in acqua ed alla nave pervennero. Coloro che sopra la nave erano, veggendo di lontan venir le galee, non potendosi partire, s’apprestarono alla difesa. Il bel Gerbino, a quella pervenuto, fe’ comandare che i padroni di quella sopra le galee mandati fossero, se la battaglia non voleano. I saracini, certificati chi erano e che domandassero, dissero, sé esser contro alla fede lor data dal re da loro assaliti, ed in segno di ciò mostrarono il guanto del re Guiglielmo e del tutto negaron di mai, se non per battaglia vinti, arrendersi o cosa che sopra la nave fosse lor dare. Gerbino, il quale sopra la poppa della nave veduta aveva la donna troppo piú bella assai che egli seco non estimava, infiammato piú che prima, al mostrar del guanto rispose che quivi non avea falconi al presente, per che guanto v’avesse luogo, e per ciò, ove dar non volesser la donna, a ricever la battaglia s’apprestassero. La qual senza piú attendere, a saettare ed a gittar pietre l’un verso l’altro fieramente incominciarono, e lungamente con danno di ciascuna delle parti in tal guisa combatterono. Ultimamente, veggendosi Gerbino poco util fare, preso un legnetto che di Sardigna menato aveano, ed in quel messo fuoco, con ammendune le galee quello accostò alla nave; il che veggendo i saracini e conoscendo, sé di necessitá o doversi arrendere o morire, fatto sopra coverta la figliuola del re venire, che sotto coverta piagnea, e quella menata alla proda della nave e chiamato il Gerbino, presente agli occhi suoi lei gridante mercé ed aiuto svenarono, ed in mar gittandola disson: — Togli, noi la ti diamo qual noi possiamo e chente la tua fede l’ha meritata. — Gerbino, veggendo la crudeltá di costoro, quasi di morir vago, non curando di saetta né di pietra, alla nave si fece accostare, e quivi su malgrado di quanti ve n’eran montato; non altramenti che un leon famelico nell’armento de’ giovenchi venuto, or questo or quello svenando, prima co’ denti e con l’unghie la sua ira sazia che la fame; con una spada in mano or questo or quel tagliando de’ saracini, crudelmente molti n’uccise Gerbino: e giá crescente il fuoco nell’accesa nave, fattone a’ marinari trarre quello che si potè per appagamento di loro, giú se ne scese con poco lieta vittoria de’ suoi avversari avere acquistata. Quindi, fatto il corpo della bella donna ricoglier di mare, lungamente e con molte lagrime il pianse, ed in Cicilia tornandosi, in Ustica, piccoletta isola quasi a Trapani di rimpetto, onorevolmente il fe’ sepellire, ed a casa piú doloroso che altro uomo si tornò. Il re di Tunisi, saputa la novella, suoi ambasciadori di nero vestiti al re Guiglielmo mandò, dolendosi della fede che gli era stata male osservata, e raccontarono il come. Di che il re Guiglielmo turbato forte, né veggendo via da poter lor giustizia negare che la domandavano, fece prendere il Gerbino, ed egli medesimo, non essendo alcun de’ baron suoi che con prieghi da ciò non si sforzasse di rimuoverlo, il condannò nella testa ed in sua presenza gliele fece tagliare, volendo avanti senza nepote rimanere che esser tenuto re senza fede. Adunque cosí miseramente in pochi giorni i due amanti, senza alcun frutto del loro amore aver sentito, di mala morte morirono come io v’ho detto.

 

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