Collected Works of Giovanni Boccaccio

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Collected Works of Giovanni Boccaccio Page 315

by Giovanni Boccaccio


  L’onesta brigata, veggendo la reina levata, tutta si dirizzò, e secondo il modo usato, ciascuno a quello che piú diletto gli era si diede. Ma essendo giá di cantar le cicale ristate, fatto ogni uom richiamare, a cena andarono; la quale con lieta festa fornita, a cantare ed a sonare tutti si diedero. Ed avendo giá, con volere della reina, Emilia una danza presa, a Dioneo fu comandato che cantasse una canzone; il quale prestamente cominciò: «Monna Aidruda, levate la coda, — ché buone novelle vi reco». Di che tutte le donne cominciarono a ridere, e massimamente la reina, la quale gli comandò che quella lasciasse e dicessene un’altra. Disse Dioneo: — Madonna, se io avessi cembalo io direi: «Alzatevi i panni, monna Lapa» o «Sotto l’ulivello è l’erba». O voleste voi che io dicessi: «L’onda del mare mi fa sì gran male»? Ma io non ho cembalo, e per ciò vedete voi qual voi volete di queste altre. Piacerebbevi: «Esci fuor, che sii tagliato — com’un mio in su la campagna»? — Disse la reina: — No, dinne un’altra. — Adunque, — disse Dioneo — dirò io: «Monna Simona imbotta imbotta — e non è del mese d’ottobre». — La reina ridendo disse: — Deh in malora! dinne una bella, se tu vuogli, ché noi non voglián cotesta. — Disse Dioneo: — No, madonna, non ve ne fate male; pur qual piú vi piace? Io ne so piú di mille. O volete: «Questo mio nicchio, s’io nol picchio» o «Deh! fa’ pian, marito mio» o Io mi comperai un gallo delle lire cento»? — La reina allora, un poco turbata, quantunque tutte l’altre ridessero, disse: — Dioneo, lascia stare il motteggiare e dinne una bella: e se non, tu potresti provare come io mi so adirare. — Dioneo, udendo questo, lasciate star le ciance, prestamente in cotal guisa cominciò a cantare:

  Amor, la vaga luceÆæche move da’ begli occhi di costeiÆæservo m’ha fatto di te e di lei.Ææ Mosse da’ suoi begli occhi lo splendoreÆæche pria la fiamma tua nel cor m’accese,Ææper li miei trapassando:Ææe quanto fosse grande il tuo valore,Ææil bel viso di lei mi fe’ palese;Ææil quale imaginando,Ææmi sentii gir legandoÆæogni vertú e sottoporla a lei,Ææfatta nuova cagion de’ sospir miei.Ææ Così de’ tuoi, adunque, divenutoÆæson, signor caro, ed ubidente aspettoÆædal tuo poter merzede:Ææma non so ben se ‘ntero è conosciutoÆæl’alto disio che messo m’hai nel pettoÆæné la mia intera fedeÆæda costei, che possiedeÆæsì la mia mente, che io non torreiÆæpace fuor che da essa, né vorrei.Ææ Per ch’io ti priego, dolce signor mio,Ææche gliel dimostri, e faccile sentireÆæalquanto del tuo focoÆæin servigio di me, ché vedi ch’ioÆægiá mi consumo amando, e nel martireÆæmi sfaccio a poco a poco;Ææe poi, quando fia loco,Ææme raccomanda a lei come tu dèi,Ææche teco a farlo volentier verrei.

  Da poi che Dioneo tacendo mostrò la sua canzone esser finita, fece la reina assai dell’altre dire, avendo nondimeno commendata molto quella di Dioneo. Ma poi che alquanta della notte fu trapassata, e la reina, sentendo giá il caldo del di esser vinto dalla freschezza della notte, comandò che ciascuno infino al dì seguente a suo piacere s’andasse a riposare.

  Sesta giornata

  INTRODUZIONE

  Novella PRIMA

  Un cavaliere dice a madonna Oretta di portarla con una novella a cavallo, e malcompostamente dicendola, è da lei pregato che a piè la ponga.

  Novella seconda

  Cisti fornaio con una sola parola fa raveder messer Geri Spina d’una sua trascutata domanda.

  Novella terza

  Monna Nonna de’ Pulci con una presta risposta al meno che onesto motteggiare del vescovo di Firenze silenzio impone.

  Novella quarta

  Chichibio, cuoco di Currado Gianfigliazzi, con una presta parola a sua salute l’ira di Currado volge in riso, e sé campa dalla mala ventura minacciatagli da Currado.

  Novella quinta

  Messer Forese da Rabatta e maestro Giotto dipintore, venendo di Mugello, l’uno la sparuta apparenza dell’altro motteggiando morde.

  Novella sesta

  Pruova Michele Scalza a certi giovani come i Baronci sono i più gentili uomini del mondo o di maremma, e vince una cena.

  Novella settima

  Madonna Filippa dal marito con un suo amante trovata, chiamata in giudicio, con una pronta e piacevol risposta sé libera e fa lo statuto modificare.

  Novella ottava

  Fresco conforta la nepote che non si specchi, se gli spiacevoli, come diceva, l’erano a veder noiosi.

  Novella nona

  Guido Cavalcanti dice con un motto onestamente villania a certi cavalier fiorentini li quali soprappresso l’aveano.

  Novella decima

  Frate Cipolla promette a certi contadini di mostrar loro la penna dell’agnolo Gabriello; in luogo della quale trovando carboni, quegli dice esser di quegli che arrostirono san Lorenzo.

  Conclusione

  Introduzione

  AVEVA LA LUNA, essendo nel mezzo del cielo, perduti i raggi suoi, e giá per la nuova luce vegnente ogni parte del nostro mondo era chiara, quando la reina levatasi, fatta la sua compagnia chiamare, alquanto con lento passo dal bel palagio, su per la rugiada spaziandosi, s’allontanarono, d’una e d’altra cosa vari ragionamenti tenendo, e della piú bellezza e della meno delle raccontate novelle disputando, ed ancora de’ vari casi recitati in quelle rinnovando le risa, infino a tanto che, giá piú alzandosi il sole e cominciandosi a riscaldare, a tutti parve di dover verso casa tornare; per che, voltati i passi, lá se ne vennero. E quivi, essendo giá le tavole messe ed ogni cosa d’erbucce odorose e di be’ fiori seminata, avanti che il caldo surgesse piú, per comandamento della reina si misero a mangiare, e questo con festa fornito, avanti che altro facessero, alquante canzonette belle e leggiadre cantate, chi andò a dormire e chi a giucare a scacchi e chi a tavole; e Dioneo insieme con Lauretta di Troilo e di Criseida cominciarono a cantare. E giá l’ora venuta del dovere a concistoro tornare, fatti tutti dalla reina chiamare, come usati erano, dintorno alla fonte si posero a sedere: e volendo giá la reina comandare la prima novella, avvenne cosa che ancora addivenuta non v’era, cioè che per la reina e per tutti fu un gran romore udito che per le fanti ed i famigliari si faceva in cucina. Laonde, fatto chiamare il siniscalco, e domandato qual gridasse e qual fosse del romore la cagione, rispose che il romore era tra Licisca e Tindaro, ma la cagione egli non sapea, sí come colui che pure allora giugnea per fargli star cheti, quando per parte di lei era stato chiamato. Al quale la reina comandò che incontanente quivi facesse venire la Licisca e Tindaro; li quali venuti, domandò la reina qual fosse la cagione del loro romore. Alla quale volendo Tindaro rispondere, la Licisca, che attempatetta era ed anzi superba che no, ed in sul gridar riscaldata, voltatasi verso lui con un mal viso, disse: — Vedi bestia d’uom che ardisce, lá dove io sia, a parlare prima di me! Lascia dir me. — Ed alla reina rivolta, disse: — Madonna, costui mi vuol far conoscere la moglie di Sicofante, e né piú né meno come se io con lei usata non fossi, mi vuol dare a vedere che, la notte prima che Sicofante giacque con lei, messer Mazza entrasse in Montenero per forza e con ispargimento di sangue: ed io dico che non è vero, anzi v’entrò paceficamente e con gran piacer di quei d’entro. Ed è ben sí bestia costui, che egli si crede troppo bene che le giovani sieno sí sciocche, che elle stieno a perdere il tempo loro stando alla bada del padre e de’ fratelli, che delle sette volte le sei soprastanno tre o quattro anni piú che non debbono a maritarle. Frate, bene starebbono se elle s’indugiasser tanto! Alla fé di Cristo, ché debbo sapere quello che io mi dico quando io giuro, io non ho vicina che pulcella ne sia andata a marito: ed anche delle maritate, so io ben quante e quali beffe elle fanno a’ mariti; e questo pecorone mi vuol far conoscer le femine, come se io fossi nata ieri! — Mentre la Licisca parlava, facevan le donne sí gran risa, che tutti i denti si sarebbero loro potuti trarre; e la reina l’aveva ben sei volte imposto silenzio, ma niente valea: ella non ristette mai infino a tanto che ella ebbe detto ciò che ella volle. Ma poi che fatto ebbe alle parole fine, la reina, ridendo, vòlta a Dioneo, disse: — Dioneo, questa è quistion da te, e per ciò farai, quando finite fieno le nostre novelle, che tu sopra essa déi sentenza finale. — Alla qual Dioneo prestamente rispo
se: — Madonna, la sentenza è data senza udirne altro: e dico che la Licisca ha ragione, e credo che cosí sia come ella dice, e Tindaro è una bestia. — La qual cosa la Licisca udendo, cominciò a ridere, ed a Tindaro rivolta, disse: — Ben lo diceva io; vatti con Dio: credi tu saper piú di me tu, che non hai ancora rasciutti gli occhi? Gran mercé; non ci son vivuta invano io, no. — E se non fosse che la reina con un mal viso le ‘mpose silenzio e comandone che piú parola né romor facesse se esser non volesse scopata, e lei e Tindaro mandò via, niuna altra cosa avrebbero avuta a fare in tutto quei giorno che attendere a lei. Li quali poi che partiti furono, la reina impose a Filomena che alle novelle desse principio; la quale lietamente cosí cominciò:

  Novella prima

  [I]

  UN CAVALIER DICE a madonna Oretta di portarla con una novella a cavallo, e mal compostamente dicendola, è da lei pregato che a piè la ponga.

  Giovani donne, come ne’ lucidi sereni sono le stelle ornamento del cielo e nella primavera i fiori de’verdi prati, e de’ colli i rivestiti albuscelli, cosí de’ laudevoli costumi e de’ ragionamenti belli sono i leggiadri motti; li quali, per ciò che brievi sono, tanto stanno meglio alle donne che agli uomini, quanto piú alle donne che agli uomini il molto parlar si disdice. È il vero che, qual si sia la cagione, o la malvagitá del nostro ingegno o inimicizia singulare che a’ nostri secoli sia portata da’ cieli, oggi poche o non niuna donna rimasa c’è la qual ne sappia ne’ tempi opportuni dire alcuno o, se detto l’è, intenderlo come si conviene: general vergogna di tutte noi. Ma per ciò che giá sopra questa materia assai da Pampinea fu detto, piú oltre non intendo di dirne: ma per farvi avvedere quanto abbiano in sé di bellezza a’ tempi detti, un cortese impor di silenzio fatto da una gentil donna ad un cavaliere mi piace di raccontarvi.

  Sì come molte di voi o possono per veduta sapere o possono avere udito, egli non è ancora guari che nella nostra cittá fu una gentile e costumata donna e ben parlante, il cui valore non meritò che il suo nome si taccia. Fu adunque chiamata madonna Oretta, e fu moglie di messer Geri Spina; la quale per ventura, essendo in contado, come noi siamo, e da un luogo ad uno altro andando per via di diporto insieme con donne e con cavalieri, li quali a casa sua il dí avuti aveva a desinare, ed essendo forse la via lunghetta di lá onde si partivano a colá dove tutti a piè d’andare intendevano, disse un de’ cavalieri della brigata: — Madonna Oretta, quando voi vogliate, io vi porterò gran parte della via che ad andare abbiamo, a cavallo con una delle belle novelle del mondo. — Al quale la donna rispose: — Messere, anzi ve ne priego io molto, e sarammi carissimo. — Messer lo cavaliere, al quale forse non istava meglio la spada allato che il novellar nella lingua, udito questo, cominciò una sua novella, la quale nel vero da sé era bellissima, ma egli or tre e quattro e sei volte replicando una medesima parola, ed ora indietro tornando, e talvolta dicendo: «Io non dissi bene», e spesso ne’ nomi errando, un per uno altro ponendone, fieramente la guastava: senza che, egli pessimamente, secondo le qualitá delle persone e gli atti che accadevano, proffereva. Di che a madonna Oretta, udendolo, spesse volte veniva un sudore ed uno sfinimento di cuore come se, inferma, fosse stata per terminare; la qual cosa poi che piú sofferir non potè, conoscendo che il cavaliere era entrato nel pecoreccio né era per riuscirne, piacevolemente disse: — Messer, questo vostro cavallo ha troppo duro trotto, per che io vi priego che vi piaccia di pormi a piè. — Il cavaliere, il quale per avventura era molto migliore intenditor che novellatore, inteso il motto, e quello in festa ed in gabbo preso, mise mano in altre novelle, e quella che cominciata aveva e mal seguita, senza finita lasciò stare.

  Novella seconda

  [II]

  CISTI FORNAIO CON una sola parola fa ravveder messer Geri Spina d’una sua trascutata domanda.

  Molto fu da ciascuna delle donne e degli uomini il parlar di madonna Oretta lodato, il qual comandò la reina a Pampinea che seguitasse; per che ella cosí cominciò:

  Belle donne, io non so da me medesima vedere che piú in questo si pecchi, o la natura apparecchiando ad una nobile anima un vil corpo o la fortuna apparecchiando ad un corpo dotato d’anima nobile vil mestiere, sí come in Cisti nostro cittadino ed in molti ancora abbiamo potuto vedere avvenire; il qual Cisti, d’altissimo animo fornito, la fortuna fece fornaio. E certo io maladicerei e la natura parimente e la fortuna, se io non conoscessi, la natura esser discretissima e la fortuna aver mille occhi, come che gli sciocchi lei cieca figurino. Le quali io avviso che, sí come molto avvedute, fanno quello che i mortali spesse volte fanno, li quali, incerti de’ futuri casi, per le loro opportunitá le loro piú care cose ne’ piú vili luoghi delle lor case, sí come meno sospetti, sepelliscono, e quindi ne’ maggior bisogni le traggono, avendole il vil luogo piú sicuramente servate che la bella camera non avrebbe. E cosí le due ministre del mondo spesso le lor cose piú care nascondono sotto l’ombra dell’arti reputate piú vili, acciò che di quelle alle necessitá traendole, piú chiaro appaia il loro splendore. Il che quanto in poca cosa Cisti fornaio il dichiarasse, gli occhi dello ‘ntelletto rimettendo a messer Geri Spina, il quale la novella di madonna Oretta contata, che sua moglie fu, m’ha tornato nella memoria, mi piace in una novelletta assai piccola dimostrarvi.

  Dico adunque che, avendo Bonifazio papa, appo il quale messer Geri Spina fu in grandissimo stato, mandati in Firenze certi suoi nobili ambasciadori per certe sue gran bisogne, essendo essi in casa di messer Geri smontati, ed egli con loro insieme i fatti del papa trattando, avvenne, che che se ne fosse cagione, che messer Geri con questi ambasciadori del papa tutti a piè quasi ogni mattina davanti a Santa Maria Ughi passavano, dove Cisti fornaio il suo forno aveva e personalmente la sua arte eserceva. Al quale quantunque la fortuna arte assai umile data avesse, tanto in quella gli era stata benigna, che egli n’era ricchissimo divenuto, e senza volerla mai per alcuna altra abbandonare, splendidissimamente vivea, avendo tra l’altre sue buone cose sempre i migliori vini bianchi e vermigli che in Firenze si trovassero o nel contado. Il quale, veggendo ogni mattina davanti all’uscio suo passar messer Geri e gli ambasciadori del papa, ed essendo il caldo grande, s’avvisò che gran cortesia sarebbe il dar lor bere del suo buon vin bianco: ma avendo riguardo alla sua condizione ed a quella di messer Geri, non gli pareva onesta cosa il presummere d’invitarlo, ma pensossi di tener modo il quale inducesse messer Geri medesimo ad invitarsi. Ed avendo un farsetto bianchissimo indosso ed un grembiule di bucato innanzi sempre, li quali piú tosto mugnaio che fornaio il dimostravano, ogni mattina in su l’ora che egli avvisava, messer Geri con gli ambasciadori dover passare, si faceva davanti all’uscio suo recare una secchia nuova e stagnata d’acqua fresca ed un piccolo orcioletto bolognese nuovo del suo buon vin bianco e due bicchieri che parevano d’ariento, sí eran chiari: ed a seder postosi, come essi passavano, ed egli, poi che una volta o due spurgato s’era, cominciava a ber sí saporitamente questo suo vino, che egli n’avrebbe fatta venir voglia a’ morti. La qual cosa avendo messer Geri una e due mattine veduta, disse la terza: — Chente è, Cisti? è buono? — Cisti, levato prestamente in piè, rispose: — Messer sí: ma quanto, non vi potrei io dare ad intendere, se voi non n’assaggiaste. — Messer Geri, al quale o la qualitá del tempo o affanno piú che l’usato avuto o forse il saporito bere che a Cisti vedeva fare, sete avea generata, vòlto agli ambasciadori, sorridendo disse: — Signori, egli è buono che noi assaggiamo del vino di questo valente uomo; forse che è egli tale, che noi non ce ne penteremo — e con loro insieme se n’andò verso Cisti. Il quale, fatta di presente una bella panca venire di fuor dal forno, gli pregò che sedessero, ed alli lor famigliari, che giá per lavare i bicchieri si facevano innanzi, disse: — Compagni, tiratevi indietro e lasciate questo servigio fare a me, ché io so non meno ben mescere che io sappia infornare; e non aspettaste voi d’assaggiarne gocciola! — E cosí detto, esso stesso lavati quattro bicchieri belli e nuovi, e fatto venire un piccolo orcioletto del suo buon vino, diligentemente diede bere a messer Geri ed a’ compagni. Alli quali il vino parve il migliore che essi avessero gran tempo davanti bevuto;
per che, commendatol molto, mentre gli ambasciador vi stettero, quasi ogni mattina con loro insieme n’andò a ber messer Geri. A’ quali, essendo espediti e partir dovendosi, messer Geri fece un magnifico convito, al quale invitò una parte de’ piú orrevoli cittadini, e fecevi invitare Cisti, il quale per niuna condizione andarvi volle. Impose adunque messer Geri ad un de’ suoi famigliari che per un fiasco andasse del vin di Cisti, e di quello un mezzo bicchier per uomo desse alle prime mense. Il famigliare, forse sdegnato perché niuna volta bere aveva potuto del vino, tolse un gran fiasco; il quale come Cisti vide, disse: — Figliuolo, messer Geri non ti manda a me. — Il che raffermando piú volte il famigliare né potendo altra risposta avere, tornò a messer Geri e sí gliele disse; a cui messer Geri disse: — Tórnavi e digli che sí fo, e se egli piú cosí ti risponde, domandalo a cui io ti mando. — Il famigliare, tornato, disse: — Cisti, per certo messer Geri mi manda pure a te. — Al quale Cisti rispose: — Per certo, figliuol, non fa. — Adunque, — disse il famigliare — a cui mi manda? — Rispose Cisti: — Ad Arno. — Il che rapportando il famigliare a messer Geri, subito gli occhi gli s’apersero dello ‘ntelletto, e disse al famigliare: — Lasciami vedere che fiasco tu vi porti. — E vedutol, disse: — Cisti dice vero — e déttagli villania, gli fece tórre un fiasco convenevole; il quale Cisti veggendo, disse: — Ora so io bene che egli ti manda a me — e lietamente gliele empiè. E poi quel medesimo dí, fatto un botticello riempiere d’un simil vino e fattolo soavemente portare a casa di messer Geri, andò appresso, e trovatolo, gli disse: — Messere, io non vorrei che voi credeste che il gran fiasco stamane m’avesse spaventato: ma parendomi che vi fosse uscito di mente ciò che io a questi di co’ miei piccoli orcioletti v’ho dimostrato, cioè che questo non sia vin da famiglia, vel volli staman raccordare. Ora, per ciò che io non intendo d’esservene piú guardiano, tutto ve l’ho fatto venire: fatene per innanzi come vi piace. — Messer Geri ebbe il dono di Cisti carissimo e quelle grazie gli rendè che a ciò credette si convenissero, e sempre poi per da molto l’ebbe e per amico.

 

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