Collected Works of Giovanni Boccaccio

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Collected Works of Giovanni Boccaccio Page 316

by Giovanni Boccaccio


  Novella terza

  [III]

  MONNA NONNA DE’ Pulci con una presta risposta al meno che onesto motteggiare del vescovo di Firenze silenzio impone.

  Quando Pampinea la sua novella ebbe finita, poi che da tutti e la risposta e la liberalitá di Cisti molto fu commendata, piacque alla reina che Lauretta dicesse appresso; la quale lietamente cosí a dir cominciò:

  Piacevoli donne, prima Pampinea ed ora Filomena assai del vero toccarono della nostra poca vertú e della bellezza de’ motti; alla qual per ciò che tornar non bisogna, oltre a quello che de’ motti è stato detto, vi voglio ricordare, essere la natura de’ motti cotale, che essi, come la pecora morde, deono cosí mordere l’uditore, e non come il cane, per ciò che, se come il cane mordesse il motto, non sarebbe motto ma villania. La qual cosa ottimamente fecero e le parole di madonna Oretta e la risposta di Cisti. È il vero che, se per risposta si dice, ed il risponditore morda come cane, essendo come da cane prima stato morso, non par da riprender come, se ciò avvenuto non fosse, sarebbe: e per ciò è da guardare e come e quando e con cui e similmente dove si motteggia. Alle quali cose poco guardando giá un nostro prelato, non minor morso ricevette che il desse; il che io in una piccola novella vi voglio mostrare.

  Essendo vescovo di Firenze messere Antonio d’Orso, valoroso e savio prelato, venne in Firenze un gentile uom catalano chiamato messer Dego della Ratta, maliscalco per lo re Ruberto, il quale, essendo del corpo bellissimo e vie piú che grande vagheggiatore, avvenne che tra l’altre donne fiorentine una ne gli piacque la quale era assai bella donna, ed era nepote d’un fratello del detto vescovo. Ed avendo sentito che il marito di lei, quantunque di buona famiglia fosse, era avarissimo e cattivo, con lui compose di dovergli dare cinquecento fiorin d’oro, ed egli una notte con la moglie il lasciasse giacere; per che, fatti dorare popolini d’ariento, che allora si spendevano, giaciuto con la moglie, come che contro al piacer di lei fosse, gliele diede. Il che poi sappiendosi per tutto, rimasero al cattivo uomo il danno e le beffe: ed il vescovo, come savio, s’infinse di queste cose niente sentire. Per che, usando molto insieme il vescovo ed il maliscalco, avvenne che il dí di san Giovanni, cavalcando l’uno allato all’altro veggendo le donne per la via onde il palio si corre, il vescovo vide una donna la quale questa pestilenza presente ci ha tolta, il cui nome fu monna Nonna de’ Pulci, cugina di messere Alesso Rinucci e cui voi tutte doveste conoscere; la quale, essendo allora una fresca e bella giovane e parlante e di gran cuore, di poco tempo avanti in Porta San Piero a marito venutane, la mostrò al maliscalco, e poi, essendole presso, posta la mano sopra la spalla del maliscalco, disse: — Nonna, che ti par di costui? Crederestil vincere? — Alla Nonna parve che quelle parole alquanto mordessero la sua onestá o la dovesser contaminare negli animi di coloro, che molti v’erano, che l’udirono; per che, non intendendo a purgar questa contaminazione, ma a render colpo per colpo, prestamente rispose: — Messere, e forse non vincerebbe me: ma vorrei buona moneta. — La qual parola udita, il maliscalco ed il vescovo sentendosi parimente trafitti, l’uno sí come facitore della disonesta cosa nella nepote del fratel del vescovo e l’altro sí come ricevitore nella nepote del proprio fratello, senza guardar l’un l’altro, vergognosi e taciti se n’andarono, senza piú quel giorno dirle alcuna cosa. Cosí adunque, essendo la giovane stata morsa, non le si disdisse il mordere altrui motteggiando.

  Novella quarta

  [IV]

  CHICHIBIO, CUOCO DI Currado Gianfigliazzi, con una presta parola a sua salute l’ira di Currado volge in riso e sé campa dalla mala ventura minacciatagli da Currado.

  Tacevasi giá la Lauretta e da tutti era stata sommamente commendata la Nonna, quando la reina a Neifile impose che seguitasse; la qual disse:

  Quantunque il pronto ingegno, amorose donne, spesso parole presti ed utili e belle, secondo gli accidenti, a’ dicitori, la fortuna ancora, alcuna volta aiutatrice de’ paurosi, sopra la lor lingua subitamente di quelle pone che mai, ad animo riposato, per lo dicitore si sarebber sapute trovare; il che io per la mia novella intendo di dimostrarvi.

  Currado Gianfigliazzi, sí come ciascuna di voi ed udito e veduto puote avere, sempre della nostra cittá è stato notabile cittadino, liberale e magnifico, e vita cavalleresca tenendo, continuamente in cani ed in uccelli s’è dilettato, le sue opere maggiori al presente lasciando stare. Il quale con un suo falcone avendo un dí presso a Peretola una gru ammazzata, trovandola grassa e giovane, quella mandò ad un suo buon cuoco il quale era chiamato Chichibio ed era viniziano, e sì gli mandò dicendo che a cena l’arrostisse e governassela bene. Chichibio, il quale, come nuovo bergolo era, cosí pareva, acconcia la gru, la mise a fuoco e con sollecitudine a cuocerla cominciò. La quale essendo giá presso che cotta e grandissimo odor venendone, avvenne che una feminetta della contrada, la quale Brunetta era chiamata e di cui Chichibio era forte innamorato, entrò nella cucina, e sentendo l’odor della gru e veggendola, pregò caramente Chichibio che ne le desse una coscia. Chichibio le rispose cantando, e disse: — Voi non l’avri da mi, donna Brunetta, voi non l’avri da mi. — Di che donna Brunetta essendo turbata, gli disse: — In fé di Dio, se tu non la mi dai, tu non avrai mai da me cosa che ti piaccia. — Ed in brieve le parole furon molte; alla fine Chichibio, per non crucciar la sua donna, spiccata l’una delle cosce alla gru, gliele diede. Essendo poi davanti a Currado e ad alcun suo forestiere messa la gru senza coscia, e Currado maravigliandosene, fece chiamare Chichibio, e domandollo che fosse divenuta l’altra coscia della gru. Al quale il vinizian bugiardo subitamente rispose: — Signor mio, le gru non hanno se non una coscia ed una gamba. — Currado allora turbato disse: — Come diavol non hanno che una coscia ed una gamba? Non vidi io mai piú gru che questa? — Chichibio seguitò: — Egli è, messer, come io vi dico; e quando vi piaccia, io il vi farò veder ne’ vivi. — Currado per amore de’ forestieri che seco avea non volle dietro alle parole andare, ma disse: — Poi che tu di’ di farmelo veder ne’ vivi, cosa che io mai piú non vidi né udii dir che fosse, ed io il voglio veder domattina e sarò contento; ma io ti giuro in sul corpo di Cristo che, se altramenti sará, che io ti farò conciare in maniera, che tu con tuo danno ti ricorderai, sempre che tu ci viverai, del nome mio. — Finite adunque per quella sera le parole, la mattina seguente, come il giorno apparve, Currado, a cui non era per lo dormire l’ira cessata, tutto ancor gonfiato si levò e comandò che i cavalli gli fossero menati: e fatto montar Chichibio sopra un ronzino, verso una fiumana alla riva della quale sempre soleva in sul far del di vedersi delle gru, nel menò, dicendo: — Tosto vedremo chi avrá iersera mentito, o tu o io. — Chichibio, veggendo che ancora durava l’ira di Currado e che far gli conveniva pruova della sua bugia, non sappiendo come poterlasi fare, cavalcava appresso a Currado con la maggior paura del mondo, e volentieri, se potuto avesse, si sarebbe fuggito: ma non potendo, ora innanzi ed ora addietro e da lato si riguardava, e ciò che vedeva credeva che gru fossero che stessero in due piè. Ma giá vicini al fiume pervenuti, gli venner prima che ad alcun vedute sopra la riva di quello ben dodici gru le quali tutte in un piè dimoravano, sí come quando dormono soglion fare. Per che egli, prestamente mostratele a Currado, disse: — Assai bene potete, messer, vedere che iersera vi dissi il vero, che le gru non hanno se non una coscia ed un piè, se voi riguardate a quelle che colá stanno. — Currado veggendole disse: — Aspèttati, che io ti mostrerò che elle n’hanno due — e fattosi alquanto piú a quelle vicino, gridò: — Hohò ! — Per lo qual grido le gru, mandato l’altro piè giú, tutte dopo alquanti passi cominciarono a fuggire; laonde Currado, rivolto a Chichibio, disse: — Che ti par, ghiottone? Parti che elle n’abbian due? — Chichibio quasi sbigottito, non sappiendo egli stesso donde si venisse, rispose: — Messer si, ma voi non gridaste «hohò!» a quella d’iersera: ché se cosí gridato aveste, ella avrebbe cosí l’altra coscia e l’altro piè fuor mandato come hanno fatto queste. — A Currado piacque tanto questa risposta, che tutta la sua ira si converti in festa e riso, e disse: — Chichibio, tu hai ragione: ben lo doveva fare. — Cosí adunque con la sua pronta e so
llazzevol risposta Chichibio cessò la mala ventura e paceficossi col suo signore.

  Novella quinta

  [V]

  MESSER FORESE DA Rabatta e maestro Giotto dipintore, venendo di Mugello, l’uno la sparuta apparenza dell’altro motteggiando morde.

  Come Neifile tacque, avendo molto le donne preso di piacere della risposta di Chichibio, cosí Panfilo per volere della reina disse:

  Carissime donne, egli avviene spesso che, sí come la fortuna sotto vili arti alcuna volta grandissimi tesori di vertu nasconde, come poco avanti per Pampinea fu mostrato, cosí ancora sotto turpissime forme d’uomini si truovano maravigliosi ingegni dalla natura essere stati riposti. La qual cosa assai apparve in due nostri cittadini de’ quali io intendo brievemente di ragionarvi: per ciò che l’uno, il quale messer Forese da Rabatta fu chiamato, essendo di persona piccolo e sformato, con viso piatto e ricagnato che a qualunque de’ Baronci piú trasformato l’ebbe, sarebbe stato sozzo, fu di tanto sentimento nelle leggi, che da molti valenti uomini uno armario di ragione civile fu reputato; e l’altro, il cui nome fu Giotto, ebbe uno ingegno di tanta eccellenza, che niuna cosa dá la natura, madre di tutte le cose ed operatrice col continuo girar de’ cieli, che egli con lo stile e con la penna o col pennello non dipignesse sí simile a quella, che non simile, anzi piú tosto dessa paresse, intanto che molte volte nelle cose da lui fatte si truova che il visivo senso degli uomini vi prese errore, quello credendo esser vero che era dipinto. E per ciò, avendo egli quella arte ritornata in luce, che molti secoli sotto gli error d’alcuni che piú a dilettar gli occhi degl’ignoranti che a compiacere allo ‘ntelletto de’ savi dipignendo intendevano, era stata sepulta, meritamente una delle luci della fiorentina gloria dirsi puote: e tanto piú, quanto con maggiore umiltá, maestro degli altri in ciò vivendo, quella acquistò, sempre rifiutando d’esser chiamato maestro; il qual titolo rifiutato da lui tanto piú in lui risplendeva, quanto con maggior disidèro da quegli che men sapevan di lui o da’ suoi discepoli era cupidamente usurpato. Ma quantunque la sua arte fosse grandissima, non era egli per ciò né di persona né d’aspetto in niuna cosa piú bello che fosse messer Forese. Ma alla novella venendo, dico che

  Avevano in Mugello messer Forese e Giotto lor possessioni: ed essendo messer Forese le sue andato a vedere, in quegli tempi di state che le ferie si celebran per le corti, e per ventura in su un cattivo ronzin da vettura venendosene, trovò il giá detto Giotto, il quale similmente, avendo le sue vedute, se ne tornava a Firenze; il quale né in cavallo né in arnese essendo in cosa alcuna meglio di lui, sí come vecchi, a pian passo venendosene, insieme s’accompagnarono. Avvenne, come spesso di state veggiamo avvenire, che una subita piova gli soprapprese; la quale essi, come piú tosto poterono, fuggirono in casa d’un lavoratore amico e conoscente di ciascuno di loro. Ma dopo alquanto, non faccendo l’acqua alcuna vista di dover ristare e costoro volendo essere il dí a Firenze, presi dal lavoratore in prestanza due mantellacci vecchi di romagnuolo e due cappelli tutti rosi dalla vecchiezza, per ciò che migliori non v’erano, cominciarono a camminare. Ora, essendo essi alquanto andati, e tutti molli veggendosi e per gli schizzi che i ronzini fanno co’ piedi in quantitá, zaccherosi, le quali cose non sogliono altrui accrescer punto d’orrevolezza, rischiarandosi alquanto il tempo, essi, che lungamente erano venuti taciti, cominciarono a ragionare. E messer Forese, cavalcando ed ascoltando Giotto, il quale bellissimo favellatore era, cominciò a considerarlo e da lato e da capo e per tutto: e veggendo ogni cosa cosí disorrevole, e cosí disparuto, senza avere a sé niuna considerazione, cominciò a ridere e disse: — Giotto, a che ora, venendo di qua alla ‘ncontro di noi un forestiere che mai veduto non t’avesse, credi tu che egli credesse che tu fossi il migliore dipintor del mondo, come tu se’? — A cui Giotto prestamente rispose: — Messere, credo che egli il crederebbe allora che, guardando voi, egli crederebbe che voi sapeste l’abici. — Il che messer Forese udendo, il suo error riconobbe, e videsi di tal moneta pagato quali erano state le derrate vendute.

  Novella sesta

  [VI]

  PRUOVA MICHELE SCALZA a certi giovani coiné i Baronci sono i piú gentili uomini del mondo o di maremma, e vince una cena.

  Ridevano ancora le donne della bella e presta risposta di Giotto, quando la reina impose il seguitare alla Fiammetta; la quale cosí incominciò a parlare:

  Giovani donne, l’essere stati ricordati i Baronci da Panfilo, li quali per avventura voi non conoscete come fa egli, m’ha nella memoria tornata una novella nella quale quanta sia la lor nobiltá si dimostra senza dal nostro proposito deviare: e per ciò mi piace di raccontarla.

  Egli non è ancora guari di tempo passato, che nella nostra cittá era un giovane chiamato Michele Scalza, il quale era il piú piacevole ed il piú sollazzevole uom del mondo, e le piú nuove novelle aveva per le mani; per la qual cosa i giovani fiorentini avevan molto caro, quando in brigata si trovavano, di potere aver lui. Ora, avvenne un giorno che, essendo egli con alquanti a Montughi, si cominciò tra loro una quistion cosí fatta: quali fossero li piú gentili uomini di Firenze ed i piú antichi; de’ quali alcuni dicevano gli Uberti ed altri i Lamberti, e chi uno e chi uno altro, secondo che nell’animo gli capea. Li quali udendo lo Scalza, cominciò a ghignare, e disse: — Andate via, andate, goccioloni che voi siete; voi non sapete ciò che voi vi dite: i piú gentili uomini ed i piú antichi, non che di Firenze, ma di tutto il mondo o di maremma, sono i Baronci, ed a questo s’accordano tutti i filosofi ed ogni uomo che gli conosce come fo io; ed acciò che voi non intendeste d’altri, io dico de’ Baronci vostri vicini da Santa Maria Maggiore. — Quando i giovani, che aspettavano che egli dovesse dire altro, udiron questo, tutti si fecero beffe di lui, e dissero: — Tu ci uccelli, quasí come se noi non conoscessimo i Baronci come facci tu. — Disse lo Scalza: — Alle guagnele non fo, anzi mi dico il vero: e se egli ce n’è niuno che voglia metter sú una cena a doverla dare a chi vince, con sei compagni quali piú gli piaceranno, io la metterò volentieri; ed ancora vi farò piú, che io ne starò alla sentenza di chiunque voi vorrete. — Tra’ quali disse uno, che si chiamava Neri Vannini: — Io sono acconcio a voler vincere questa cena. — Ed accordatosi insieme d’aver per giudice Piero di Fiorentino, in casa cui erano, ed andatisene a lui, e tutti gli altri appresso, per vedere perdere lo Scalza e dargli noia, ogni cosa detta gli raccontarono. Piero, che discreto giovane era, udita primieramente la ragione di Neri, poi allo Scalza rivolto, disse: — E tu come potrai mostrare questo che tu affermi? — Disse lo Scalza: — Che? Il mostrerò per sí fatta ragione, che non che tu, ma costui che il nega, dirá che io dica il vero. Voi sapete che, quanto gli uomini son piú antichi, piú son gentili, e cosí si diceva pur testé tra costoro: ed i Baronci son piú antichi che niuno altro uomo, sí che son piú gentili; e come essi sien piú antichi mostrandovi, senza dubbio io avrò vinta la quistione. Voi dovete sapere che i Baronci furon fatti da Domenedio al tempo che egli aveva cominciato d’apparare a dipignere, ma gli altri uomini furon fatti poscia che Domenedio seppe dipignere. E che io dica di questo il vero, ponete mente a’ Baronci ed agli altri uomini: dove voi tutti gli altri vedrete co’ visi ben composti e debitamente proporzionati, potrete vedere i Baronci qual col viso molto lungo e stretto, e quale averlo oltre ad ogni convenienza largo, e tal v’è col naso molto lungo e tale l’ha corto, ed alcuni col mento in fuori ed insú rivolto, e con mascelloni che paion d’asino, ed èvvi tale che ha l’uno occhio piú grosso che l’altro, ed ancora chi ha l’un piú giú che l’altro, sí come sogliono essere i visi che fanno da prima i fanciulli che apparano a disegnare; per che, come giá dissi, assai bene appare che Domenedio gli fece quando apparava a dipignere, sí che essi son piú antichi che gli altri, e cosí piú gentili. — Della qual cosa e Piero che era il giudice e Neri che aveva messa la cena e ciascuno altro ricordandosi, ed avendo il piacevole argomento dello Scalza udito, tutti cominciarono a ridere e ad affermare che lo Scalza aveva ragione e che egli aveva vinta la cena e che per certo i Baronci erano i piú gentili uomini ed i piú antichi che fossero, non che in Firenze, ma nel mondo o in m
aremma. E per ciò meritamente Panfilo, volendo la turpitudine del viso di messer Forese mostrare, disse che stato sarebbe sozzo ad un de’ Baronci.

  Novella settima

  [VII]

  MADONNA FILIPPA, DAL marito con un suo amante trovata, chiamata in giudicio, con una pronta e piacevol risposta sé libera e fa lo statuto modificare.

  Giá si tacea la Fiammetta e ciascun rideva ancora del nuovo argomento dallo Scalza usato a nobilitare sopra ogni altro i Baronci, quando la reina ingiunse a Filostrato che novellasse: ed egli a dir cominciò:

  Valorose donne, bella cosa è in ogni parte saper ben parlare, ma io la reputo bellissima, quivi saperlo fare dove la necessitá il richiede; il che si ben seppe fare una gentil donna della quale intendo di ragionarvi, che non solamente festa e riso porse agli uditori, ma sé de’ lacci di vituperosa morte disviiuppò, come voi udirete.

  Nella terra di Prato fu giá uno statuto, nel vero non men biasimevole che aspro, il quale, senza niuna distinzion far, comandava che cosí fosse arsa quella donna che dal marito fosse con alcun suo amante trovata in adulterio, come quella che per denari con qualunque altro uomo stata trovata fosse. E durante questo statuto, avvenne che una gentil donna e bella ed oltre ad ogni altra innamorata, il cui nome fu madonna Filippa, fu trovata nella sua propria camera una notte da Rinaldo de’ Pugliesi suo marito nelle braccia di Lazzarino de’ Guazzagliotri, nobile giovane e bello di quella terra, il quale ella quanto se medesima amava; la qual cosa Rinaldo veggendo, turbato forte, appena del correr loro addosso e d’uccidergli si ritenne, e se non fosse che di se medesimo dubitava, seguitando l’impeto della sua ira l’avrebbe fatto. Rattemperatosi adunque da questo, non si potè temperare da voler quello, dallo statuto pratese, che a lui non era licito di fare, cioè la morte della sua donna. E per ciò, avendo al fallo della donna provare assai convenevole testimonianza, come il dì fu venuto, senza altro consiglio prendere, accusata la donna, la fece richiedere. La donna, che di gran cuore era, sí come generalmente esser soglion quelle che innamorate son da dovero, ancora che sconsigliata da molti suoi amici e parenti ne fosse, del tutto dispose di comparire e di voler piú tosto, la veritá confessando, con forte animo morire che vilmente, fuggendo, per contumacia in esilio vivere e negarsi degna di cosí fatto amante come colui era nelle cui braccia era stata la notte passata. Ed assai bene accompagnata di donne e d’uomini, da tutti confortata al negare, davanti al podestá venuta, domandò con fermo viso e con salda voce quello che egli a lei domandasse. Il podestá, riguardando costei e veggendola bellissima e di maniere laudevoli molto, e secondo che le sue parole testimoniavano, di grande animo, cominciò di lei ad aver compassione, dubitando non ella confessasse cosa per la quale a lui convenisse, volendo il suo onor servare, farla morire. Ma pur, non potendo cessare di domandarla di quello che apposto l’era, le disse: — Madonna, come voi vedete, qui è Rinaldo vostro marito, e duolsi di voi, la quale egli dice che ha con altro uomo trovata in adulterio, e per ciò domanda che io, secondo che uno statuto che c’è, vuole, faccendovi morire di ciò vi punisca: ma ciò far non posso se voi nol confessate, e per ciò guardate bene quello che voi rispondete, e ditemi se vero è quello di che vostro marito v’accusa. — La donna, senza sbigottire punto, con voce assai piacevole rispose: — Messere, egli è vero che Rinaldo è mio marito e che egli questa notte passata mi trovò nelle braccia di Lazzarino, nelle quali io sono, per buono e per perfetto amore che io gli porto, molte volte stata, né questo negherei mai: ma come io son certa che voi sapete, le leggi deono esser comuni e fatte con consentimento di coloro a cui toccano; le quali cose di questa non avvengono, ché essa solamente le donne tapinelle costrigne, le quali molto meglio che gli uomini potrebbero a molti sodisfare: ed oltre a questo, non che alcuna donna, quando fatta fu, ci prestasse consentimento, ma niuna ce ne fu mai chiamata; per le quali cose meritamente malvagia si può chiamare. E se voi volete, in pregiudicio del mio corpo e della vostra anima, esser di quella esecutore, a voi sta: ma avanti che ad alcuna cosa giudicar procediate, vi priego che una piccola grazia mi facciate, cioè che voi il mio marito domandiate se io ogni volta e quante volte a lui piaceva, senza dir mai di no, io di me stessa gli concedeva intera copia o no. — A che Rinaldo, senza aspettare che il podestá il domandasse, prestamente rispose che senza alcun dubbio la donna ad ogni sua richesta gli aveva di sé ogni suo piacer conceduto. — Adunque, — seguí prestamente la donna — domando io voi, messer podestá, se egli ha sempre di me preso quello che gli è bisognato e piaciuto, io che doveva fare o debbo di quel che gli avanza? debbolo io gittare a’ cani? Non è egli molto meglio servirne un gentile uomo che piú che sé m’ama, che lasciarlo perdere o guastare? — Eran quivi a cosí fatta esaminazione e di tanta e sí famosa donna quasi tutti i pratesi concorsi, li quali, udendo cosí piacevol domanda, subitamente, dopo molte risa, quasi ad una voce tutti gridarono, la donna aver ragione e dir bene: e prima che di quivi si partissono, a ciò confortandogli il podestá, modificarono il crudele statuto e lasciarono che egli s’intendesse solamente per quelle donne le quali per denari a’ lor mariti facesser fallo. Per la qual cosa Rinaldo, rimaso di cosí matta impresa confuso, si partí dal giudicio, e la donna lieta e libera, quasi dal fuoco risuscitata, alla sua casa se ne tornò gloriosa.

 

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