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Collected Works of Giovanni Boccaccio

Page 343

by Giovanni Boccaccio


  Lá ov’io son giunto, Amore,Ææ non si poria contare lungamente,

  con tanta dolcezza e sì piacevolmente, che al re, che con diletto le riguardava ed ascoltava, pareva che tutte le gerarchie degli agnoli quivi fossero discese a cantare; e quel detto, inginocchiatesi, reverentemente commiato domandarono al re, il quale, ancora che la lor partita gli gravasse, pure in vista lietamente il diede. Finita adunque la cena, ed il re co’ suoi compagni rimontato a cavallo e messer Neri lasciato, ragionando d’una cosa e d’altra, al reale ostiere se ne tornarono. Quivi, tenendo il re la sua affezion nascosa né per grande affare che sopravvenisse potendo dimenticar la bellezza e la piacevolezza di Ginevra la bella, per amor di cui la sorella a lei simigliarne ancora amava, sì nell’amorose panie s’invescò, che quasi ad altro pensar non poteva: ed altre cagioni dimostrando, con messer Neri teneva una stretta dimestichezza ed assai sovente il suo bel giardin visitava per veder la Ginevra. E giá piú avanti sofferir non potendo ed essendogli, non sappiendo altro modo vedere, nel pensier caduto di dover non solamente l’una, ma ammendune le giovanette al padre tôrre, ed il suo amore e la sua intenzione fe’ manifesta al conte Guido. Il quale, per ciò che valente uomo era, gli disse: — Monsignore, io ho gran maraviglia di ciò che voi mi dite, e tanto ne l’ho maggiore che uno altro non avrebbe, quanto mi par meglio, dalla vostra fanciullezza infino a questo di, avere i vostri costumi conosciuti che alcuno altro; e non essendomi paruto giá mai nella vostra giovanezza, nella quale Amor piú leggermente doveva i suoi artigli ficcare, aver tal passion conosciuta, sentendovi ora che giá siete alla vecchiezza vicino, m’è si nuovo e sì strano che voi per amore amiate, che quasi un miracol mi pare. E se a me di ciò cadesse il riprendervi, io so bene ciò che io ve ne direi, avendo riguardo che voi ancora siete con l’arme indosso nel regno nuovamente acquistato, tra nazione non conosciuta e piena d’inganni e di tradimenti, e tutto occupato di grandissime sollecitudini e d’alto affare, né ancora vi siete potuto porre a sedere: ed intra tante cose abbiate fatto luogo al lusinghevole amore. Questo non è atto di re magnanimo, anzi d’un pusillanimo giovanetto. Ed oltre a questo, che è molto peggio, dite che diliberato avete di tôrre le due figliuole al povero cavaliere il quale in casa sua oltre al poter suo v’ha onorato, e per piú onorarvi quelle quasi ignude v’ha dimostrate, testificando per quello quanta sia la fede che egli ha in voi e che esso fermamente creda voi essere re, e non lupo rapace. Ora, èvvi cosí tosto della memoria caduto, le violenze fatte alle donne da Manfredi avervi l’entrata aperta in questo regno? Qual tradimento si commise giá mai piú degno d’eterno supplicio che saria questo, che voi a colui che v’onora togliate il suo onore e la sua speranza e la sua consolazione? Che si direbbe di voi se il faceste? Voi forse estimate che sufficiente scusa fosse il dire: Io il feci per ciò che egli è ghibellino». Ora, è questo della giustizia de’ re, che coloro che nelle lor braccia ricorrono, in cotal forma, chi che essi si sieno, in cosí fatta guisa si trattino? Io vi ricordo, re, che grandissima gloria v’è aver vinto Manfredi, ma molto maggiore è se medesimo vincere: e per ciò voi, che avete gli altri a correggere, vincete voi medesimo e questo appetito raffrenate, né vogliate con cosí fatta macchia ciò che gloriosamente acquistato avete, guastare. — Queste parole amaramente punsero l’animo del re, e tanto piú l’affiissero quanto piú vere le conoscea; per che, dopo alcun caldo sospiro, disse: — Conte, per certo ogni altro nemico, quantunque forte, estimo che sia al bene ammaestrato guerriere assai debole ed agevole a vincere a rispetto del suo medesimo appetito: ma quantunque l’affanno sia grande e la forza bisogni inestimabile, sí m’hanno le vostre parole spronato, che conviene, avanti che troppi giorni trapassino, che io vi faccia per opera vedere che, come io so altrui vincere, cosí similmente so a me medesimo soprastare. — Né molti giorni appresso a queste parole passarono, che, tornato il re a Napoli, sí per tôrre a sé materia d’operar vilmente alcuna cosa e sí per premiare il cavaliere dell’onore ricevuto da lui, quantunque duro gli fosse il fare altrui possessor di quello che egli sommamente per sé disiderava, nondimen si dispose di voler maritare le due giovani, e non come figliuole di messer Neri, ma come sue. E con piacer di messer Neri, magnificamente dotatele, Ginevra la bella diede a messer Maffeo da Palizzi ed Isotta la bionda a messer Guiglielmo della Magna, nobili cavalieri e gran baron ciascuno: e loro assegnatele, con dolore inestimabile in Puglia se n’andò, e con fatiche continue tanto e sí forte macerò il suo fiero appetito, che, spezzate e rotte l’amorose catene, per quanto viver dovea, libero rimase da tal passione. Saranno forse di que’ che diranno, piccola cosa essere ad un re l’aver maritate due giovanette, ed io il consentirò: ma molto grande e grandissima la dirò, se diremo che un re innamorato questo abbia fatto, colei maritando cui egli amava, senza aver preso o pigliare del suo amore fronda o fiore o frutto. Cosí adunque il magnifico re operò, il nobile cavaliere altamente premiando, l’amate giovanette laudevolmente onorando e se medesimo fortemente vincendo.

  Novella settima

  [VII]

  IL RE PIETRO, sentito il fervente amore portatogli dalla Lisa inferma, lei conforta, ed appresso, ad un gentil giovane la marita; e lei nella fronte basciata, sempre poi si dice suo cavaliere.

  Venuta era la Fiammetta alla fine della sua novella, e commendata era stata molto la virile magnificenza del re Carlo, quantunque alcuna che quivi era, ghibellina, commendar noi volesse, quando Pampinea, avendogliele il re imposto, incominciò:

  Niun discreto, ragguardevoli donne, sarebbe, che non dicesse ciò che voi dite del buon re Carlo, se non costei, che gli vuol mal per altro. Ma per ciò che a me va per la memoria una cosa non meno commendevole forse che questa, fatta da un suo avversario in una nostra giovane fiorentina, quella mi piace di raccontarvi.

  Nel tempo che i franceschi di Cicilia furon cacciati, era in Palermo un nostro fiorentino speziale, chiamato Bernardo Puccini, ricchissimo uomo, il quale d’una sua donna, senza piú, aveva una figliuola bellissima e giá da marito. Ed essendo il re Pietro d’Araona signor dell’isola divenuto, faceva in Palermo maravigliosa festa co’ suoi baroni; nella qual festa, armeggiando egli alla catalana, avvenne che la figliuola di Bernardo, il cui nome era Lisa, da una finestra dove ella era con altre donne, il vide correndo egli, e sì maravigliosamente le piacque, che, una volta ed altra poi riguardandolo, di lui ferventemente s’innamorò. E cessata la festa ed ella in casa del padre standosi, a niuna altra cosa poteva pensare se non a questo suo magnifico ed alto amore; e quello che intorno a ciò piú l’offendeva era il conoscimento della sua infima condizione, il quale niuna speranza appena le lasciava pigliare di lieto fine: ma nonpertanto da amare il re indietro non si voleva tirare, e per paura di maggior noia a manifestar non l’ardiva. Il re di questa cosa non s’era accorto né si curava, di che ella, oltre a quello che si potesse estimare, portava intollerabil dolore; per la qual cosa avvenne che, crescendo in lei amor continuamente ed una malinconia sopra altra aggiugnendosi, la bella giovane, piú non potendo, infermò, ed evidentemente di giorno in giorno come la neve al sole si consumava. Il padre di lei e la madre, dolorosi di questo accidente, con conforti continui e con medici e con medicine in ciò che si poteva l’aiutavano: ma niente era, per ciò che ella, sí come del suo amore disperata, aveva eletto di piú non volere vivere. Ora, avvenne che, offerendole il padre di lei ogni suo piacere, le venne in pensiero, se acconciamente potesse, di volere il suo amore ed il suo proponimento, prima che morisse, fare al re sentire: e per ciò un dì il pregò che egli le facesse venire Minuccio d’Arezzo. Era in que’ tempi Minuccio tenuto un finissimo cantatore e sonatore, e volentieri dal re Pietro veduto, il quale Bernardo avvisò che la Lisa volesse per udirlo alquanto e sonare e cantare; per che fattogliele dire, egli, che piacevole uomo era, incontanente a lei venne: e poi che alquanto con amorevoli parole confortata l’ebbe, con una sua viuola dolcemente sonò alcuna stampita e cantò appresso alcuna canzone, le quali all’amor della giovane erano fuoco e fiamma, lá dove egli la credea consolare. Appresso questo, disse la giovane che a lui solo alquante parole voleva dire; per che partitosi ciascuno
altro, ella gli disse: — Minuccio mio, io ho eletto te per fidissimo guardatore d’un mio segreto, sperando primieramente che tu quello a niuna persona, se non a colui che io ti dirò, debbi manifestar giá mai, ed appresso, che in quello che per te si possa tu mi debbi aiutare; e cosí ti priego. Dèi adunque sapere, Minuccio mio, che il giorno che il nostro signore re Pietro fece la gran festa della sua esaltazione, mel venne, armeggiando egli, in sì forte punto veduto, che dell’amor di lui mi s’accese un fuoco nell’anima che al partito m’ha recata che tu mi vedi: e conoscendo io quanto male il mio amore ad un re si convenga, e non potendolo, non che cacciare, ma diminuire, ed egli essendomi oltre modo grave a comportare, ho per minor doglia eletto di voler morire; e cosí farò. È il vero che io fieramente n’andrei sconsolata, se prima egli nol sapesse; e non sappiendo per cui potergli questa mia disposizion far sentire piú acconciamente che per te, a te commettere la voglio, e priegoti che non rifiuti di farlo: e quando fatto l’avrai, assapere mel facci, acciò che io, consolata morendo, mi sviluppi da queste pene. — E questo detto, piagnendo, si tacque. Maravigliossi Minuccio dell’altezza dell’animo di costei e del suo fiero proponimento, ed increbbenegli forte; e subitamente nell’animo corsogli come onestamente la poteva servire, le disse: — Lisa, io t’obligo la mia fede, della quale vivi sicura che mai ingannata non ti troverai: ed appresso, commendandoti di sì alta impresa come è aver l’animo posto a cosí gran re, t’offero il mio aiuto, col quale io spero, dove tu confortarti vogli, sì adoperare, che avanti che passi il terzo giorno ti credo recar novelle che sommamente ti saran care; e per non perder tempo, voglio andare a cominciare. — La Lisa, di ciò da capo pregatol molto e promessogli di confortarsi, disse che s’andasse con Dio. Minuccio, partitosi, ritrovò un Mico da Siena, assai buon dicitore in rima a que’ tempi, e con prieghi lo strinse a far la canzonetta che segue:

  Moviti, Amore, e vattene a messere,Ææe contagli le pene ch’io sostegno;Æædigli ch’a morte veglio,Ææcelando per temenza il mio volere.

  Merzede, Amore, a man giunte ti chiamo,Ææch’a messer vadi lá dove dimora;Æædi’ che sovente lui disio ed amo,Ææsì dolcemente lo cuor m’innamora:Ææe per lo foco ond’io tutta m’infiamoÆætemo morire, e giá non saccio l’oraÆæch’i’ parta da sì grave pena duraÆæla qual sostegno per lui disiando,Æætemendo e vergognando;Æædeh! il mal mio per Dio fagli assapere.Ææ Poi che di lui, Amor, fu’ innamorataÆænon mi donasti ardir, quant’ho temenzaÆæche io potessi sola una fiataÆælo mio voler dimostrare in parvenzaÆæa quegli che mi tien tanto affannata;Ææcosì morendo, il morir m’è gravenza:Ææforse che non gli saria dispiacenzaÆæse el sapesse quanta pena i’ sento,Ææs’a me dato ardimentoÆæavesse in fargli il mio stato sapere.Ææ Poi che ‘n piacere non ti fu, Amore,Ææch’a me donassi tanta sicuranza,Ææch’a messer far savessi lo mio core,Æælassa! per messo mai o per sembianza,Ææmerzé ti chero, dolce mio signore,Ææche vadi a lui: e donagli membranzaÆædel giorno ch’io il vidi a scudo e lanzaÆæcon altri cavalieri arme portare:Ææpresilo a riguardareÆæinnamorata sì, che ‘l mio cuor pére.

  Le quali parole Minuccio prestamente intonò d’un suono soave e pietoso sí come la materia di quelle richiedeva, ed il terzo dì se n’andò a corte, essendo ancora il re Pietro a mangiare; dal quale gli fu detto che egli alcuna cosa cantasse con la sua viuola. Laonde egli cominciò sì dolcemente sonando a cantar questo suono, che quanti nella real sala n’erano parevano uomini adombrati, si tutti stavano taciti e sospesi ad ascoltare, ed il re per poco piú che gli altri. Ed avendo Minuccio il suo canto fornito, il re il domandò donde questo venisse che mai piú non gliele pareva avere udito. — Monsignore, — rispose Minuccio — e’ non sono ancora tre giorni che le parole si fecero ed il suono. — Il quale avendo il re domandato per cui, rispose: — Io non l’oso scoprir se non a voi. — Il re, disideroso d’udirlo, levate le tavole, nella camera sel fe’ venire, dove Minuccio ordinatamente ogni cosa udita gli raccontò; di che il re fece gran festa e commendò la giovane assai, e disse che di sí valorosa giovane si voleva aver compassione, e per ciò andasse da sua parte a lei e la confortasse, e le dicesse che senza fallo quel giorno in sul vespro la verrebbe a visitare. Minuccio, lietissimo di portare cosí piacevole novella, alla giovane senza ristare con la sua viuola n’andò, e con lei sola parlando, ogni cosa stata raccontò, e poi la canzon cantò con la sua viuola. Di questo fu la giovane tanto lieta e tanto contenta, che evidentemente senza alcuno indugio apparver segni grandissimi della sua sanitá: e con disidèro, senza sapere o presummere alcun della casa che ciò si fosse, cominciò ad aspettare il vespro, nel quale il suo signore veder dovea. Il re, il quale liberale e benigno signore era, avendo poi piú volte pensato alle cose udite da Minuccio e conoscendo ottimamente la giovane e la sua bellezza, divenne ancora piú che non era pietoso: ed in su l’ora del vespro montato a cavallo, sembianti faccendo d’andare a suo diporto, pervenne lá dove era la casa dello speziale; e quivi, fatto domandare che aperto gli fosse un bellissimo giardino il quale lo speziale avea, in quello smontò, e dopo alquanto domandò Bernardo che fosse della figliuola, se egli ancora maritata l’avesse. Rispose Bernardo: — Monsignore, ella non è maritata, anzi è stata ed ancora è forte malata; è il vero che da nona in qua ella è maravigliosamente migliorata. — Il re intese prestamente quello che questo miglioramento voleva dire, e disse: — In buona fé, danno sarebbe che ancora fosse tolta al mondo sí bella cosa; noi la vogliamo venire a visitare. — E con due compagni solamente e con Bernardo nella camera di lei poco appresso se n’andò, e come lá entro fu, s’accostò al letto dove la giovane alquanto sollevata con disio l’aspettava, e lei per la man prese dicendo: — Madonna, che vuol dir questo? Voi siete giovane e dovreste l’altre confortare, e voi vi lasciate aver male? Noi vi vogliam pregare che vi piaccia per amor di noi di confortarvi in maniera che voi siate tosto guerita. — La giovane, sentendosi toccare alle mani di colui il quale ella sopra tutte le cose amava, come che ella alquanto si vergognasse, pur sentiva tanto piacere nell’animo quanto se stata fosse in paradiso, e come potè gli rispose: — Signor mio, il volere io le mie poche forze sottoporre a gravissimi pesi m’è di questa infermitá stata cagione, dalla quale voi, vostra buona mercé, tosto libera mi vedrete. — Solo il re intendeva il coperto parlare della giovane e da piú ognora la reputava, e piú volte seco stesso maladisse la fortuna che di tale uomo l’aveva fatta figliuola: e poi che alquanto fu con lei dimorato e piú ancora confortatala, si partí. Questa umanitá del re fu commendata assai ed in grande onor fu attribuita allo speziale ed alla figliuola; la quale tanto contenta rimase quanto altra donna di suo amante fosse giá mai: e da migliore speranza aiutata, in pochi giorni guerita, piú bella diventò che mai fosse. Ma poi che guerita fu, avendo il re con la reina diliberato qual merito di tanto amore le volesse rendere, montato un dí a cavallo, con molti de’ suoi baroni a casa dello speziai se n’andò, e nel giardino entratosene, fece lo spezial chiamare e la sua figliuola: ed in questo venuta la reina con molte donne, e la giovane tra lor ricevuta, cominciarono maravigliosa festa. E dopo alquanto, il re insieme con la reina chiamata la Lisa, le disse il re: — Valorosa giovane, il grande amor che portato n’avete v’ha grande onore da noi impetrato, del quale noi vogliamo che per amor di noi siate contenta: e l’onore è questo, che, con ciò sia cosa che voi da marito siate, vogliamo che colui prendiate per marito che noi vi daremo, intendendo sempre, nonostante questo, vostro cavaliere appellarci, senza piú di tanto amor voler da voi che un sol bascio. — La giovane, che di vergogna tutta era nel viso divenuta vermiglia, faccendo suo il piacer del re, con bassa voce cosí rispose: — Signor mio, io son molto certa che, se egli si sapesse che io di voi innamorata mi fossi, la piú della gente me ne reputerebbe matta, credendo forse che io a me medesima fossi uscita di mente e che io la mia condizione, ed oltre a questo, la vostra non conoscessi: ma, come Iddio sa che solo i cuori de’ mortali vede, io nell’ora che voi prima mi piaceste conobbi voi essere re, e me figliuola di Bernardo speziale, e male a me convenirsi in sì alto luogo l’ardore dell’animo dirizzare. Ma sí come voi molto me
glio di me conoscete, niun secondo debita elezione ci s’innamora, ma secondo l’appetito ed il piacere; alla qual legge piú volte s’opposero le forze mie: e piú non potendo, v’amai ed amo ed amerò sempre. È il vero che, come io ad amore di voi mi sentii prendere, cosí mi disposi di far sempre del vostro voler mio: e per ciò, non che io faccia questo, di prender volentier marito e d’aver caro quello il quale vi piacerá di donarmi, che mio onore e stato sará, ma se voi diceste che io dimorassi nel fuoco, credendovi io piacere, mi sarebbe diletto. Aver voi re per cavaliere, sapete quanto mi si conviene, e per ciò piú a ciò non rispondo; né il bascio che solo del mio amor volete, senza licenza di madama la reina vi sará conceduto. Nondimeno di tanta benignitá verso me quanta è la vostra e quella di madama la reina che è qui, Iddio per me vi renda e grazie e merito, ché io da render non l’ho. — E qui si tacque. Alla reina piacque molto la risposta della giovane, e parvele cosí savia come il re l’aveva detto. Il re fece chiamare il padre della giovane e la madre, e sentendogli contenti di ciò che fare intendeva, si fece chiamare un giovane, il quale era gentile uomo ma povero, che avea nome Perdicone, e postegli certe anella in mano, a lui non recusante di farlo fece sposare la Lisa; a’ quali incontanente il re, oltre a molte gioie e care che egli e la reina alla giovane donarono, gli donò Ceffalú e Calatabellotta, due bonissime terre e di gran frutto, dicendo: — Queste ti doniam noi per dota della donna; quello che noi vorremo fare a te, tu tel vedrai nel tempo avvenire. — E questo detto, rivolto alla giovane, disse: — Ora vogliami noi prender quel frutto che noi del vostro amore aver dobbiamo — e presole con ammendune le mani il capo, le basciò la fronte. Perdicone ed il padre e la madre della Lisa, ed ella altressi, contenti grandissima festa fecero e liete nozze: e secondo che molti affermano, il re molto bene servò alla giovane il convenente, per ciò che, mentre visse, sempre s’appellò suo cavaliere, né mai in alcun fatto d’arme andò che egli altra sopransegna portasse che quella che dalla giovane mandata gli fosse. Cosí adunque operando, si pigliano gli animi de’ suggetti, dássi altrui materia di bene operare e le fame eterne s’acquistano; alla qual cosa oggi pochi o niuno ha l’arco teso dello ‘ntelletto, essendo li piú de’ signori divenuti crudeli e tiranni.

 

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