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Collected Works of Giovanni Boccaccio

Page 348

by Giovanni Boccaccio


  Conclusione

  LA NOVELLA DI Dioneo era finita, ed assai le donne, chi d’una parte e chi d’altra tirando, chi biasimando una cosa e chi un’altra intorno ad essa lodandone, n’avevan favellato, quando il re, levato il viso verso il cielo e veggendo che il sole era giá basso all’ora di vespro, senza da seder levarsi, cosí cominciò a parlare:

  Adorne donne, come io credo che voi conosciate, il senno de’ mortali non consiste solamente nell’avere a memoria le cose preterite o conoscere le presenti: ma per l’una e per l’altra di queste sapere antiveder le future è da’ solenni uomini senno grandissimo reputato. Noi, come voi sapete, domane saranno quindici dì, per dovere alcun diporto pigliare a sostentamento della nostrá sanitá e della vita, cessando le malinconie ed i dolori e l’angosce le quali per la nostra cittá continuamente, poi che questo pistilenzioso tempo incominciò, si veggiono, uscimmo di Firenze; il che, secondo il mio giudicio, noi onestamente abbiam fatto, per ciò che, se io ho saputo ben riguardare, quantunque liete novelle e forse attrattive a concupiscenza dette ci sieno, e del continuo mangiato e bevuto bene, e sonato e cantato, cose tutte da incitare le deboli menti a cose meno oneste, niuno atto, niuna parola, niuna cosa né dalla vostra parte né dalla nostra ci ho conosciuta da biasimare: continua onestá, continua concordia, continua fraternal dimestichezza mi c’è paruta vedere e sentire, il che senza dubbio in onore e servigio di voi e di me m’è carissimo. E per ciò, acciò che per troppo lunga consuetudine alcuna cosa che in fastidio si convertisse, nascer non ne potesse, e perché alcuno la nostra troppo lunga dimoranza gavillar non potesse, ed avendo ciascun di noi la sua giornata avuta la sua parte dell’onore che in me ancora dimora, giudicherei, quando piacer fosse di voi, che convenevole cosa fosse omai il tornarci lá onde ci partimmo. Senza che, se voi ben riguardate, la nostra brigata, giá da piú altre saputa da torno, per maniera potrebbe multiplicare che ogni nostra consolazion ci torrebbe: e per ciò, se voi il mio consiglio approvate, io mi serverò la corona donatami per infino alla nostra partita, che intendo che sia domattina; ove voi altramenti diliberaste, io ho giá pronto cui per lo dí seguente ne debba incoronare. — I ragionamenti furon molti tra le donne e tra’ giovani, ma ultimamente presero per utile e per onesto il consiglio del re, e così di fare diliberarono come egli aveva ragionato; per la qual cosa esso, fattosi il siniscalco chiamare, con lui del modo che a tenere avesse nella seguente mattina parlò, e licenziata la brigata infino all’ora della cena, in piè si levò.

  Le donne e gli altri, levatisi, non altramenti che usati si fossero, chi ad un diletto e chi ad uno altro si diede; e l’ora della cena venuta, con sommo piacere furono a quella, e dopo quella, a cantare ed a sonare ed a carolare cominciarono: e menando la Lauretta una danza, comandò il re alla Fiammetta che dicesse una canzone; la quale assai piacevolemente cosí incominciò a cantare:

  S’Amor venisse senza gelosia,Ææio non so donna nataÆælieta com’io sarei, e qual vuol sia.Ææ Se gaia giovanezzaÆæin bello amante dèe donna appagare,Ææo pregio di vertuteÆæo ardire o prodezza,Ææsenno, costumi o ornato parlareÆæo leggiadrie compiute,Ææio son colei, per certo, in cui salute,Ææessendo innamorata,Æætutte le veggio en la speranza mia.Ææ Ma per ciò ch’io m’avveggioÆæche altre donne savie son com’io,Ææio triemo di paura:Ææe pur credendo il peggio,Æædi quello, avviso en l’altre esser disio,Ææch’a me l’anima fura;Ææe cosí quel che m’è somma venturaÆæmi fa isconsolataÆæsospirar forte e stare in vita ria.Ææ Se io sentissi fedeÆænel mio signor quant’io sento valore,Æægelosa non sarei:Ææma tanto se ne vede,Ææpure che sia ch’inviti l’amadore,Ææch’io gli ho tutti per rei;Ææquesto m’accuora, e volentier morrei:Ææe di chiunque il guataÆæsospetto, e temo non mel porti via.Ææ Per Dio, dunque, ciascunaÆædonna pregata sia che non s’attentiÆædi farmi in ciò oltraggio:Ææché, se ne fia nessunaÆæche con parole o cenni o blandimentiÆæin questo il mio dannaggioÆæcerchi o procuri, s’io il risapraggio,Ææse io non sia svisata,Ææpiagner farolle amara tal follia.

  Come la Fiammetta ebbe la sua canzon finita, cosí Dioneo, che allato l’era, ridendo disse: — Madonna, voi fareste una gran cortesia a farlo conoscere a tutte, acciò che per ignoranza non vi fosse tolta la possessione, poi che cosí ve ne dovete adirare. — Appresso questa, se ne cantaron piú altre: e giá essendo la notte presso che mezza, come al re piacque, tutti s’andarono a riposare. E come il nuovo giorno apparve, levati, avendo giá il siniscalco via ogni lor cosa mandata, dietro alla guida del discreto re verso Firenze si ritornarono: ed i tre giovani, lasciate le sette donne in Santa Maria Novella, donde con loro partiti s’erano, da esse accommiatatisi, a loro altri piaceri attesero; ed esse, quando tempo lor parve, se ne tornarono alle lor case.

  Conclusioni dell’Autore

  NOBILISSIME GIOVANI, A consolazion delle quali io a così lunga fatica messo mi sono, io mi credo, aiutantemi la divina grazia, sì come io avviso, per li vostri pietosi prieghi, non già per li miei meriti, quello compiutamente aver fornito che io nel principio della presente opera promisi di dover fare; per la qual cosa Iddio primieramente, e appresso voi ringraziando, è da dare alla penna e alla man faticata riposo. Il quale prima che io le conceda, brievemente ad alcune cosette, le quali forse alcuna di voi o altri potrebbe dire (con ciò sia cosa che a me paia esser certissimo queste non dovere avere spezial privilegio più che l’altre cose, anzi non averlo mi ricorda nel principio della quarta giornata aver mostrato), quasi a tacite quistioni mosse, di rispondere intendo.

  Saranno per avventura alcune di voi che diranno che io abbia nello scriver queste novelle troppa licenzia usata, sì come fare alcuna volta dire alle donne e molte spesso ascoltare cose non assai convenienti né a dire né ad ascoltare ad oneste donne. La qual cosa io nego, per ciò che niuna sì disonesta n’è, che, con onesti vocaboli dicendola, si disdica ad alcuno; il che qui mi pare assai convenevolmente bene aver fatto.

  Ma presupponiamo che così sia (ché non intendo di piatir con voi, che mi vincereste), dico, a rispondere perché io abbia ciò fatto, assai ragioni vengon prontissime. Primieramente se alcuna cosa in alcuna n’è, la qualità delle novelle l’hanno richesta, le quali se con ragionevole occhio da intendente persona fien riguardate, assai aperto sarà conosciuto (se io quelle della lor forma trar non avessi voluto) altramenti raccontar non poterle. E se forse pure alcuna particella è in quelle, alcuna paroletta più liberale che forse a spigolistra donna non si conviene, le quali più le parole pesano che’fatti e più d’apparer s’ingegnano che d’esser buone, dico che più non si dee a me esser disdetto d’averle scritte, che generalmente si disdica agli uomini e alle donne di dir tutto dì “foro e caviglia e mortaio e pestello e salciccia e mortadello”,e tutto pieno di simiglianti cose. Senza che alla mia penna non dee essere meno d’autorità conceduta che sia al pennello del dipintore, il quale senza alcuna riprensione, o almen giusta, lasciamo stare che egli faccia a san Michele ferire il serpente con la spada o con la lancia, e a san Giorgio il dragone dove gli piace; ma egli fa Cristo maschio ed Eva femina, e a Lui medesimo che volle per la salute della umana generazione sopra la croce morire, quando con un chiovo e quando con due i piè gli conficca in quella.

  Appresso assai ben si può cognoscere queste cose non nella chiesa, delle cui cose e con animi e con vocaboli onestissimi si convien dire (quantunque nelle sue istorie d’altramenti fatte, che le scritte da me, si truovino assai), né ancora nelle scuole de’ filosofanti, dove l’onestà non meno che in altra par te è richesta, dette sono, né tra’cherici né tra’filosofi in alcun luogo, ma ne’giardini, in luogo di sollazzo, tra persone giovani, benché mature e non pieghevoli per novelle, in tempo nel quale andar con le brache in capo per iscampo di sé era alli più onesti non disdicevole, dette sono.

  Le quali, chenti che elle si sieno, e nuocere e giovar possono, sì come possono tutte l’altre cose, avendo riguardo allo ascoltatore. Chi non sa ch’è il vino ottima cosa a’ viventi, secondo Cinciglione e Scolaio e assai altri, e a colui che ha la febbre è nocivo? Direm noi, per ciò che nuoce a’ febricitanti, che sia malv
agio? Chi non sa che ‘l fuoco è utilissimo, anzi necessario a’ mortali? Direm noi, per ciò che egli arde le case e le ville e le città, che sia malvagio? L’arme similmente la salute difendon di coloro che pacificamente di viver disiderano, e anche uccidon gli uomini molte volte, non per malizia di loro, ma di coloro che malvagiamente l’adoperano.

  Niuna corrotta mente intese mai sanamente parola; e così come le oneste a quella non giovano, così quelle che tanto oneste non sono la ben disposta non posson contaminare, se non come il loto i solari raggi o le terrene brutture le bellezze del cielo.

  Quali libri, quali parole, quali lettere son più sante, più degne, più riverende, che quelle della divina Scrittura? E sì sono egli stati assai che, quelle perversamente intendendo, sé e altrui a perdizione hanno tratto. Ciascuna cosa in sé medesima è buona ad alcuna cosa, e male adoperata può essere nociva di molte; e così dico delle mie novelle. Chi vorrà da quelle malvagio consiglio o malvagia operazion trarre, elle nol vieteranno ad alcuno, se forse in sé l’hanno, e torte e tirate fieno ad averlo; e chi utilità e frutto ne vorrà, elle nol negheranno, né sarà mai che altro che utili e oneste sien dette o tenute, se a que’tempi o a quelle persone si leggeranno, per cui s e pe’quali state sono raccontate. Chi ha a dir paternostri o a fare il migliaccio o la torta al suo divoto, lascile stare: elle non correranno di dietro a niuna a farsi leggere; benché e le pinzochere altressì dicono e anche fanno delle cosette otta per vicenda.

  Saranno similmente di quelle che diranno qui esserne alcune, che non essendoci sarebbe stato assai meglio. Concedasi: ma io non poteva né doveva scrivere se non le raccontate, e per ciò esse che le dissero le dovevan dir belle, e io l’avrei scritte belle. Ma se pur presupporre si volesse che io fossi stato di quelle e lo ‘nventore e lo scrittore (che non fui), dico che io non mi vergognerei che tutte belle non fossero per ciò che maestro alcun non si truova, da Dio in fuori, che ogni cosa faccia bene e compiutamente; e Carlo Magno, che fu il primo facitore de’ Paladini, non ne seppe tanti creare che esso di lor soli potesse fare oste.

  Conviene nella moltitudine delle cose, diverse qualità di cose trovarsi. Niun campo fu mai sì ben coltivato, che in esso o ortica o triboli o alcun pruno non si trovasse mescolato tra l’erbe migliori. Senza che, ad avere a favellare a semplici giovinette come voi il più siete, sciocchezza sarebbe stata l’andar cercando e faticandosi in trovar cose molto esquisite, e gran cura porre di molto misuratamente parlare. Tuttavia chi va tra queste leggendo, lasci star quelle che pungono, e quelle che dilettano legga. Esse, per non ingannare alcuna personar tutte nella fronte portan segnato quello che esse dentro dal loro seno nascoso tengono.

  E ancora, credo, sarà tal che dirà che ce ne son di troppo lunghe. Alle quali ancora dico, che chi ha altra cosa a fare, follia fa a queste leggere, eziandio se brievi fossero. E come che molto tempo passato sia da poi che io a scriver cominciai, infino a questa ora che io al fine vengo della mia fatica, non m’è per ciò uscito di mente me avere questo mio affanno offerto alle oziose e non all’altre; e a chi per tempo passar legge, niuna cosa puote esser lunga, se ella quel fa per che egli l’adopera.

  Le cose brievi si convengon molto meglio agli studianti, li quali non per passare ma per utilmente adoperare il tempo faticano, che a voi, donne, alle quali tanto del tempo avanza quanto negli amorosi piaceri non ispendete. E oltre a questo, per ciò che né ad Atene né a Bologna o a Parigi alcuna di voi non va a studiare, più distesamente parlar vi si conviene che a quegli che hanno negli studi gl’ingegni assottigliati.

  Né dubito punto che non sien di quelle ancor che diranno le cose dette esser troppo piene e di motti e di ciance e mal convenirsi ad uno uom pesato e grave aver così fattamente scritto. A queste son io tenuto di render grazie e rendo, per ciò che, da buon zelo movendosi, tenere son della mia fama.

  Ma così alla loro opposizione vo’rispondere: io confesso d’esser pesato, e molte volte de’ miei dì essere stato; e per ciò, parlando a quelle che pesato non m’hanno, affermo che io non son grave, anzi son io sì lieve che io sto a galla nell’acqua; e considerato che le prediche fatte da’ frati, per rimorder delle lor colpe gli uomini, il più oggi piene di motti e di ciance e di scede [sono], estimai che quegli medesimi non stesser male nelle mie novelle, scritte per cacciar la malinconia delle femine. Tuttavia, se troppo per questo ridessero, il lamento di Geremia, la passione del Salvatore e il ramarichio della Maddalena ne le potrà agevolmente guerire.

  E chi starà in pensiero che di quelle ancor non si truovino che diranno che io abbia mala lingua e velenosa, per ciò che in alcun luogo scrivo il ver de’ frati? A queste che così diranno si vuol perdonare, per ciò che non è da credere che altra che giusta cagione le muova, per ciò che i frati son buone persone e fuggono il disagio per l’amor di Dio, e macinano a raccolta e nol ridicono; e se non che di tutti un poco viene del caprino, troppo sarebbe più piacevole il piato loro.

  Confesso nondimeno le cose di questo mondo non avere stabilità alcuna, ma sempre essere in mutamento, e così potrebbe della mia lingua esser intervenuto; la quale, non credendo io al mio giudicio (il quale a mio potere io fuggo nelle mie cose) non ha guari mi disse una mia vicina che io l’aveva la migliore e la più dolce del mondo; e in verità, quando questo fu, egli erano poche a scrivere delle soprascritte novelle. E per ciò che animosamente ragionan quelle cotali, voglio che quello che è detto basti lor per risposta.

  E lasciando omai a ciascheduna e dire e credere come le pare, tempo è da por fine alle parole, Colui umilmente ringraziando che dopo sì lunga fatica col suo aiuto n’ha al desiderato fine condotto. E voi, piacevoli donne, con la sua grazia in pace vi rimanete, di me ricordandovi, se ad alcuna forse alcuna cosa giova l’averle lette.

  QUI FINISCE LA DECIMA E ULTIMA GIORNATA DEL LIBRO CHIAMATO DECAMERON, COGNOMINATO PRENCIPE GALEOTTO

  The Novels

  Naples, Italy — in 1326, when Boccaccio was thirteen, his father was appointed head of a bank and moved with his family to Naples. Boccaccio soon became an apprentice at the bank, but soon tired of the profession.

  ‘Harbour of Naples’ by Pieter Bruegel the Elder, 1588, Doria Pamphilj Gallery

  The Filocolo

  Translated by H. G., London, 1566

  Boccaccio wrote The Filocolo between 1335 and 1336 and it is now regarded as the first novel of Italian literature. It was composed in Boccaccio’s youth, during his stay in Naples in 1336. It tells the story of Florio, son of the King of Spain, and Biancifiore, an orphan. Having grown up together they are in love, yet they are forced to undergo many adventures and misfortunes that separate them.

  In the narrative, Florio encounters Caleone, who represents the author himself. Caleone is part of a “noble brigade” and invites Florio to join them. Each of the group in turn proposes a question of love. The section is particularly significant as it foreshadows the scheme of the later Decameron.

  Much of Boccaccio’s material is drawn from popular tradition and the adventures of Florio and Biancifiore became as well known in Europe as those of Tristan and Isolde. In Italy there was a popular poem in ottava rima entitled Cantare di Florio e Biancifiore. Boccaccio, however, made a distinctive version of the story, inaugurating his new prose style. Interestingly, Geoffrey Chaucer’s The Franklin’s Tale, from The Canterbury Tales, is largely based on The Filocolo and has been included after the 1566 translation by the anonymous H. G..

  Illumination from a manuscript of ‘Il Filocolo’, Oxford, Bodleian Library

  CONTENTS

  THE FILOCOLO (1566 translation)

  THE BOOKE TO THE READER

  DEDICATION

  CHAPTER 1. QUESTIONS OF LOVE THE ARGUMENT

  CHAPTER 2. THE FIRST QUESTION, PROPOSED BY PHILOCOPO

  CHAPTER 3. THE SECOND QUESTION, PROPOSED BY PARMENIO

  CHAPTER 4. THE THIRD QUESTION, PROPOSED BY A YOUNG GENTLEWOMAN

  CHAPTER 5. THE FOURTH QUESTION, PROPOSED BY MENEDON

  CHAPTER 6. THE FIFTH QUESTION, PROPOSED BY CLONICO

  CHAPTER 7. THE SIXTH QUESTION, PROPOSED
BY A YOUNG GENTLEWOMAN

  CHAPTER 8. THE SEVENTH QUESTION, PROPOSED BY GALEON

  CHAPTER 9. THE EIGHTH QUESTION, PROPOSED BY A YOUNG GENTLEWOMAN NAMED PAOLA

 

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