Jerusalem Delivered
Page 118
E ‘l giovinetto cor s’appaga, e gode
104 Del dolce suon della verace lode.
XIV.
Onde così rispose: i gradi primi
Più meritar, che conseguir desio;
Nè, purchè me la mia virtù sublimi,
108 Di scettri altezza invidiar degg’io.
Ma s’all’onor mi chiami, e che lo stimi
Debito a me, non ci verrò restío:
E caro esser mi dee, che mi sia mostro
112 Sì bel segno da voi del valor nostro.
XV.
Dunque io nol chiedo, e nol rifiuto: e quando
Duce io pur sia, sarai tu degli eletti.
Allora il lascia Eustazio, e va piegando
116 De’ suoi compagni, al suo voler, gli affetti.
Ma chiede a prova il Principe Gernando
Quel grado, e bench’Armida in lui saetti,
Men può nel cor superbo amor di donna,
120 Ch’avidità d’onor che se n’indonna.
XVI.
Sceso Gernando è da’ gran Re Norvegj,
Che di molte provincie ebber l’impero;
E le tante corone, e’ scettri regj
124 E del padre e degli avi il fanno altero.
Altero è l’altro de’ suoi proprj pregj
Più che dell’opre che i passati fero;
Ancor che gli avi suoi cento e più lustri
128 Stati sian chiari in pace, e ‘n guerra illustri.
XVII.
Ma il barbaro Signor, che sol misura
Quanto l’oro, e ‘l dominio oltre si stenda,
E per se stima ogni virtute oscura,
132 Cui titolo regal chiara non renda;
Non può soffrir, che in ciò ch’egli procura,
Seco di merto il cavalier contenda:
E se ne cruccia sì, ch’oltra ogni segno
136 Di ragione il trasporta ira e disdegno.
XVIII.
Talchè ‘l maligno spirito d’Averno,
Ch’in lui strada sì larga aprir si vede,
Tacito in sen gli serpe, ed al governo
140 De’ suoi pensieri lusingando siede:
E quì più sempre l’ira, e l’odio interno
Inacerbisce, e ‘l cor stimola e fiede:
E fa che ‘n mezzo all’alma ognor risuoni
144 Una voce ch’a lui così ragioni:
XIX.
Teco giostra Rinaldo; or tanto vale
Quel suo numero van d’antichi eroi?
Narri costui, ch’a te vuol farsi eguale,
148 Le genti serve, e i tributarj suoi:
Mostri gli scettri, e in dignità regale
Paragoni i suoi morti ai vivi tuoi.
Ah quanto osa un signor d’indegno stato,
152 Signor, che nella serva Italia è nato!
XX.
Vinca egli, o perda omai; fu vincitore
Sin da quel dì ch’emulo tuo divenne.
Che dirà il mondo? (e ciò fia sommo onore)
156 Questi già con Gernando in gara venne.
Poteva a te recar gloria e splendore
Il nobil grado, che Dudon pria tenne:
Ma già non meno esso da te n’attese;
160 Costui scemò suo pregio allor che ‘l chiese.
XXI.
E se, poich’altri più non parla o spira,
De’ nostri affari alcuna cosa sente;
Come credi che in Ciel, di nobil’ira,
164 Il buon vecchio Dudon si mostri ardente?
Mentre in questo superbo i lumi gira,
Ed al suo temerario ardir pon mente;
Che seco ancor, l’età sprezzando e ‘l merto,
168 Fanciullo osa agguagliarsi ed inesperto.
XXII.
E l’osa pure, e ‘l tenta, e ne riporta
In vece di castigo onor e laude:
E v’è chi ne ‘l consiglia, e ne l’esorta,
172 (O vergogna comune!) e chi gli applaude.
Ma se Goffredo il vede, e gli comporta
Che di ciò ch’a te dessi, egli ti fraude;
No ‘l soffrir tu; nè già soffrir lo dei,
176 Ma ciò che puoi dimostra, e ciò che sei.
XXIII.
Al suon di queste voci arde lo sdegno,
E cresce in lui quasi commossa face:
Nè capendo nel cor gonfiato e pregno,
180 Per gli occhj n’esce, e per la lingua audace.
Ciò che di riprensibile e d’indegno
Crede in Rinaldo, a suo disnor, non tace:
Superbo e vano il finge, e ‘l suo valore
184 Chiama temerità pazza e furore.
XXIV.
E quanto di magnanimo, e d’altero,
E d’eccelso, e d’illustre in lui risplende,
Tutto (adombrando con mal’arti il vero)
188 Pur, come vizio sia, biasma e riprende:
E ne ragiona sì, che ‘l cavaliero
Emulo suo, pubblico il suon n’intende.
Non però sfoga l’ira, o si raffrena
192 Quel cieco impeto in lui, ch’a morte il mena.
XXV.
Chè ‘l reo demon, che la sua lingua move
Di spirto in vece, e forma ogni suo detto,
Fa che gl’ingiusti oltraggj ognor rinnove,
196 Esca aggiungendo all’infiammato petto.
Loco è nel campo assai capace, dove
S’aduna sempre un bel drappello eletto;
E quivi insieme, in torneamenti e in lotte,
200 Rendon le membra vigorose e dotte.
XXVI.
Or quivi, allor che v’è turba più folta,
Pur, com’è suo destin, Rinaldo accusa:
E quasi acuto strale in lui rivolta
204 La lingua del venen d’Averno infusa:
E vicino è Rinaldo, e i detti ascolta;
Nè puote l’ira omai tener più chiusa:
Ma grida: menti; e addosso a lui si spinge,
208 E nudo nella destra il ferro stringe.
XXVII.
Parve un tuono la voce, e ‘l ferro un lampo
Che di folgor cadente annunzio apporte.
Tremò colui, nè vide fuga, o scampo
212 Dalla presente irreparabil morte:
Pur, tutto essendo testimonio il campo,
Fa sembiante d’intrepido e di forte;
E ‘l gran nemico attende, e ‘l ferro tratto,
216 Fermo si reca di difesa in atto.
XXVIII.
Quasi in quel punto mille spade ardenti
Furon vedute fiammeggiar insieme;
Chè varia turba di mal caute genti
220 D’ogn’intorno v’accorre, e s’urta e preme.
D’incerte voci, e di confusi accenti
Un suon per l’aria si raggira e freme,
Qual s’ode in riva al mare, ove confonda
224 Il vento i suoi co’ mormorii dell’onda.
XXIX.
Ma per le voci altrui già non s’allenta
Nell’offeso guerrier l’impeto e l’ira.
Sprezza i gridi, e i ripari, e ciò che tenta
228 Chiudergli il varco, ed a vendetta aspira;
E fra gli uomini, e l’arme oltre s’avventa,
E la fulminea spada in cerchio gira,
Sì, che le vie si sgombra; e solo, ad onta
232 Di mille difensor, Gernando affronta.
Sì che le vie si sgombra, e solo, ad onta
Di mille difensor, Gernando affronta.
XXX.
E con la man, nell’ira anco maestra,
Mille colpi ver lui drizza e comparte.
Or al petto, or al capo, or alla destra
236 Tenta ferirlo, ora alla manca parte;
E impetuosa, e rapida la destra
È in guisa tal, che gli occhj inganna e l’arte:
Talch’improvvisa, e inaspettata giunge
240 Ove manco si teme; e fère e punge.
XXXI.
Nè cessò mai, f
inchè nel seno immersa
Gli ebbe una volta, e due la fera spada.
Cade il meschin su la ferita, e versa
244 Gli spirti, e l’alma fuor per doppia strada.
L’arme ripone ancor di sangue aspersa
Il vincitor, nè sovra lui più bada;
Ma si rivolge altrove, e insieme spoglia
248 L’animo crudo, e l’adirata voglia.
XXXII.
Tratto al tumulto il pio Goffredo intanto
Vede fero spettacolo improvviso:
Steso Gernando, il crin di sangue e ‘l manto
252 Sordido e molle, e pien di morte il viso.
Ode i sospiri, e le querele, e ‘l pianto
Che molti fan sovra il guerriero ucciso.
Stupido chiede: or quì, dove men lece,
256 Chi fu ch’ardì cotanto, e tanto fece?
XXXIII.
Arnaldo, un de’ più cari al Prence estinto,
Narra, e ‘l caso in narrando aggrava molto,
Che Rinaldo l’uccise, e che fu spinto
260 Da leggiera cagion d’impeto stolto:
E che quel ferro, che per Cristo è cinto,
Ne’ campioni di Cristo avea rivolto;
E sprezzato il suo impero, e quel divieto
264 Che fè pur dianzi, e che non è secreto.
XXXIV.
E che per legge è reo di morte, e deve,
Come l’editto impone, esser punito:
Sì perchè ‘l fallo in se medesmo è greve,
268 Sì perchè ‘n loco tale egli è seguito.
Chè se dell’error suo perdon riceve,
Fia ciascun altro, per l’esempio, ardito;
E che gli offesi poi quella vendetta
272 Vorranno far, ch’a i giudici s’aspetta.
XXXV.
Onde, per tal cagion, discordie e risse
Germoglieran fra quella parte e questa:
Rammentò i merti dell’estinto, e disse
276 Tutto ciò, ch’o pietate, o sdegno desta.
Ma s’oppose Tancredi, e contradisse,
E la causa del reo dipinse onesta.
Goffredo ascolta, e in rigida sembianza
280 Porge più di timor, che di speranza.
XXXVI.
Soggiunse allor Tancredi: or ti sovvegna,
Saggio Signor, chi sia Rinaldo, e quale:
Qual per se stesso onor gli si convegna,
284 E per la stirpe sua chiara e regale,
E per Guelfo suo zio: non dee chi regna,
Nel castigo, con tutti esser eguale.
Vario è l’istesso error ne’ gradi varj:
288 E sol l’egualità giusta è co’ pari.
XXXVII.
Risponde il Capitan: da i più sublimi
Ad ubbidire imparino i più bassi.
Mal, Tancredi, consigli, e male stimi,
292 Se vuoi che i grandi in sua licenza io lassi.
Qual fora imperio il mio, s’a’vili ed imi,
Sol Duce della plebe, io comandassi?
Scettro impotente, e vergognoso impero;
296 Se con tal legge è dato, io più nol chero.
XXXVIII.
Ma libero fu dato, e venerando:
Nè vuo’ ch’alcun d’autorità lo scemi.
E so ben io come si deggia, e quando
300 Ora diverse impor le pene e i premj,
Ora, tenor d’egualità serbando,
Non separar dagl’infimi i supremi.
Così dicea, nè rispondea colui,
304 Vinto da riverenza, ai detti sui.
XXXIX.
Raimondo, imitator della severa
Rigida antichità, lodava i detti.
Con quest’arti, dicea, chi bene impera
308 Si rende venerabile ai soggetti;
Chè già non è la disciplina intera,
Ov’uom perdono, e non castigo aspetti.
Cade ogni regno, e ruinosa è senza
312 La base del timor ogni clemenza.
XL.
Tal ei parlava: e le parole accolse
Tancredi, e più fra lor non si ritenne;
Ma ver Rinaldo immantinente volse
316 Un suo destrier, che parve aver le penne.
Rinaldo, poi ch’al fier nemico tolse
L’orgoglio e l’alma, al padiglion sen venne.
Quì Tancredi trovollo, e delle cose
320 Dette e risposte appien la somma espose.
XLI.
Soggiunse poi: bench’io sembianza esterna
Del cor non stimi testimon verace;
Chè ‘n parte troppo cupa, e troppo interna
324 Il pensier de’ mortali occulto giace:
Pur ardisco affermar, a quel ch’io scerna
Nel Capitan, che in tutto anco nol tace,
Ch’egli ti voglia all’obbligo soggetto
328 De’ rei comune, e in suo poter ristretto.
XLII.
Sorrise allor Rinaldo, e con un volto
In cui tra ‘l riso lampeggiò lo sdegno:
Difenda sua ragion ne’ ceppi involto
332 Chi servo è, disse, o d’esser servo è degno;
Libero i’ nacqui e vissi, e morrò sciolto,
Pria che man porga o piede a laccio indegno:
Usa alla spada è questa destra ed usa
336 Alle palme, e vil nodo ella ricusa.
XLIII.
Ma, s’ai meriti miei questa mercede
Goffredo rende, e vuol impregionarme
Pur com’io fossi un uom del volgo, e crede
340 A carcere plebeo legato trarme;
Venga egli, o mandi, io terrò fermo il piede:
Giudici fian tra noi la sorte, e l’arme:
Fera tragedia vuol che s’appresenti,
344 Per lor diporto, alle nemiche genti?
XLIV.
Ciò detto, l’armi chiede, e ‘l capo e ‘l busto
Di finissimo acciajo adorno rende,
E fa del grande scudo il braccio onusto,
348 E la fatale spada al fianco appende:
E in sembiante magnanimo ed augusto,
Come folgore suol, nell’armi splende.
Marte, e’ rassembra te, qualor dal quinto
352 Cielo, di ferro scendi e d’orror cinto.
XLV.
Tancredi intanto i feri spirti, e ‘l core
Insuperbito d’ammollir procura.
Giovine invitto, dice, al tuo valore
356 So che fia piana ogni erta impresa e dura:
So che fra l’armi sempre, e fra ‘l terrore
La tua eccelsa virtute è più sicura.
Ma non consenta Dio, ch’ella si mostri
360 Oggi sì crudelmente a’ danni nostri.
XLVI.
Dimmi, che pensi far? vorrai le mani
Del civil sangue tuo dunque bruttarte?
E con le piaghe indegne de’ Cristiani
364 Trafigger Cristo, ond’ei son membra e parte?
Di transitorio onor rispetti vani,
Che, qual onda di mar sen viene e parte,
Potranno in te più che la fede, e ‘l zelo
368 Di quella gloria, che n’eterna in Cielo?
XLVII.
Ah non per Dio: vinci te stesso, e spoglia
Questa feroce tua mente superba.
Cedi: non fia timor, ma santa voglia,
372 Ch’a questo ceder tuo palma si serba.
E se pur degna, ond’altri esempio toglia,
È la mia giovinetta etate acerba;
Anch’io fui provocato, e pur non venni
376 Co’ fedeli in contesa, e mi contenni.
XLVIII.
Ch’avendo io preso di Cilicia il regno,
E l’insegne spiegatevi di Cristo;
Baldovin sopraggiunse, e con indegno
380 Modo occupollo, e ne fè vile acquisto:
Chè, mostrandosi amico ad ogni segno,
Del suo avaro pensier non m’era avvisto;
Ma con l’arme però
di ricovrarlo
384 Non tentai poscia, e forse i’ potea farlo.
XLIX.
E se pur anco la prigion ricusi,
E i laccj schivi quasi ignobil pondo:
E seguir vuoi l’opinioni e gli usi,
388 Che per leggi d’onore approva il mondo;
Lascia quì me ch’al Capitan ti scusi;
Tu in Antiochia vanne a Boemondo:
Chè di sopporti, in questo impeto primo,
392 A’ suoi giudícj assai sicuro stimo.
L.
Ben tosto fia (se pur quì contra avremo
L’arme d’Egitto, od altro stuol Pagano)
Ch’assai più chiaro il tuo valore estremo
396 N’apparirà, mentre starai lontano:
E senza te parranne il campo scemo,
Quasi corpo, cui tronco è braccio o mano.
Qui Guelfo sopraggiunge, e i detti approva:
400 E vuol che senza indugio indi si mova.
LI.
Ai lor consiglj la sdegnosa mente
Dell’audace garzon si volge e piega:
Tal ch’egli di partirsi immantinente
404 Fuor di quell’oste ai fidi suoi non nega.
Molta intanto è concorsa amica gente:
E seco andarne, ognun procura e prega.
Egli tutti ringrazia, e seco prende
408 Sol due scudieri, e sul cavallo ascende.
LII.
Parte; e porta un desio d’eterna ed alma
Gloria, ch’a nobil core è sferza e sprone:
A magnanime imprese intenta ha l’alma,
412 Ed insolite cose oprar dispone:
Gir fra’ nemici; ivi o cipresso o palma
Acquistar per la fede, ond’è campione:
Scorrer l’Egitto, e penetrar sin dove
416 Fuor d’incognito fonte il Nilo move.
LIII.
Ma Guelfo, poi che ‘l giovine feroce,
Affrettato al partir, preso ha congedo;
Quivi non bada, e se ne va veloce
420 Ove egli stima ritrovar Goffredo.
Il qual, come lui vede, alza la voce;
Guelfo, dicendo, appunto or te richiedo:
E mandato ho pur ora in varie parti
424 Alcun de’ nostri araldi a ricercarti.
LIV.
Poi fa ritrarre ogn’altro, e in basse note
Ricomincia con lui grave sermone:
Veracemente, o Guelfo, il tuo nipote
428 Troppo trascorre, ov’ira il cor gli sprone;
E male addursi, a mia credenza, or puote
Di questo fatto suo giusta cagione.
Ben caro avrò, che la ci rechi tale;
432 Ma Goffredo con tutti è Duce eguale.
LV.
E sarà del legitimo e del dritto
Custode in ogni caso e difensore;
Serbando sempre, al giudicare, invitto
436 Dalle tiranne passioni il core.
Or se Rinaldo a violar l’editto,
E della disciplina il sacro onore
Costretto fu, come alcun dice; ai nostri