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Jerusalem Delivered

Page 119

by Torquato Tasso


  440 Giudícj venga ad inchinarsi, e ‘l mostri.

  LVI.

  A sua ritenzion libero vegna;

  Questo ch’io posso, ai merti suoi consento.

  Ma s’egli sta ritroso, e se ne sdegna,

  444 (Conosco quel suo indomito ardimento)

  Tu di condurlo, e provveder t’ingegna

  Ch’ei non isforzi uom mansueto e lento

  Ad esser delle leggi, e dell’impero

  448 Vendicator, quanto è ragion, severo.

  LVII.

  Così disse egli; e Guelfo a lui rispose:

  Anima non potea, d’infamia schiva,

  Voci sentir di scorno ingiuriose,

  452 E non farne repulsa ove l’udiva.

  E se l’oltraggiatore a morte ei pose,

  Chi è che meta a giust’ira prescriva?

  Chi conta i colpi, o la dovuta offesa,

  456 Mentre arde la tenzon, misura e pesa?

  LVIII.

  Ma quel che chiedi tu, ch’al tuo soprano

  Arbitrio il garzon venga a sottoporse,

  Duolmi ch’esser non può; ch’egli lontano

  460 Dall’oste immantinente il passo torse.

  Ben m’offro io di provar con questa mano

  A lui, ch’a torto in falsa accusa il morse,

  O s’altri v’è di sì maligno dente,

  464 Ch’ei punì l’onta ingiusta giustamente.

  LIX.

  A ragion, dico, al tumido Gernando

  Fiaccò le corna del superbo orgoglio.

  Sol, s’egli errò, fu nell’oblio del bando:

  468 Ciò ben mi pesa, ed a lodar nol toglio.

  Tacque, e disse Goffredo: Or vada errando,

  E porti risse altrove: io quì non voglio

  Che sparga seme tu di nuove liti:

  472 Deh, per Dio, sian gli sdegni anco finiti.

  LX.

  Di procurare il suo soccorso intanto

  Non cessò mai l’ingannatrice rea.

  Pregava il giorno, e ponea in uso quanto

  476 L’arte, e l’ingegno, e la beltà potea.

  Ma poi, quando stendendo il fosco manto

  La notte in Occidente il dì chiudea,

  Fra duo suoi cavalieri e due matrone,

  480 Ricovrava in disparte al padiglione.

  LXI.

  Ma benchè sia mastra d’inganni, e i suoi

  Modi gentili, e le parole accorte,

  E bella sì, che ‘l ciel prima nè poi

  484 Altrui non diè maggior bellezza in sorte;

  Talchè del campo i più famosi eroi

  Ha presi d’un piacer tenace e forte;

  Non è però, ch’all’esca de’ diletti

  488 Il pio Goffredo lusingando alletti.

  LXII.

  Invan cerca invaghirlo, e con mortali

  Dolcezze attrarlo all’amorosa vita:

  Chè qual satúro augel, che non si cali

  492 Ove, il cibo mostrando, altri l’invita;

  Tal ei, sazio del mondo, i piacer frali

  Sprezza, e sen poggia al ciel per via romita;

  E quante insidie al suo bel volo tende

  496 L’infido Amor, tutte fallaci rende.

  LXIII.

  Nè impedimento alcun torcer dall’orme

  Puote, che Dio ne segna, i pensier santi.

  Tentò ella mill’arti, e in mille forme,

  500 Quasi Proteo novel, gli apparve innanti:

  E desto Amor, dove più freddo ei dorme,

  Avrian gli atti dolcissimi, e i sembianti;

  Ma quì (grazie divine) ogni sua prova

  504 Vana riesce, e ritentar non giova.

  LXIV.

  La bella donna, ch’ogni cor più casto

  Arder credeva ad un girar di ciglia,

  Oh come perde or l’alterezza e ‘l fasto,

  508 E quale ha di ciò sdegno, e maraviglia!

  Rivolger le sue forze ove contrasto

  Men duro trovi, alfin si riconsiglia:

  Qual capitan ch’inespugnabil terra

  512 Stanco abbandoni, e porti altrove guerra.

  LXV.

  Ma contra l’arme di costei, non meno,

  Si mostrò di Tancredi invitto il core;

  Peroch’altro desio gl’ingombra il seno,

  516 Nè vi può loco aver novello ardore:

  Chè siccome dall’un l’altro veleno

  Guardar ne suol, tal l’un dall’altro amore.

  Questi soli non vinse: o molto, o poco

  520 Avvampò ciascun altro al suo bel foco.

  LXVI.

  Ella, sebben si duol che non succeda

  Sì pienamente il suo disegno e l’arte,

  Pur, fatto avendo così nobil preda

  524 Di tanti eroi, si riconsola in parte.

  E pria che di sue frodi altri s’avveda,

  Pensa condurgli in più sicura parte,

  Ove gli stringa poi d’altre catene,

  528 Che non son queste ond’or presi gli tiene.

  LXVII.

  E, sendo giunto il termine che fisse

  Il Capitano a darle alcun soccorso,

  A lui sen venne riverente, e disse:

  532 Sire, il dì stabilito è già trascorso:

  E se per sorte il reo tiranno udisse

  Ch’i’ abbia fatto all’arme tue ricorso,

  Prepareria sue forze alla difesa:

  536 Nè così agevol poi fora l’impresa.

  LXVIII.

  Dunque, prima ch’a lui tal nova apporti

  Voce incerta di fama o certa spia,

  Scelga la tua pietà fra’ tuoi più forti,

  540 Alcuni pochi, e meco or or gl’invia:

  Chè, se non mira il Ciel con occhj torti

  L’opre mortali, o l’innocenza oblia,

  Sarò riposta in regno, e la mia terra

  544 Sempre avrai tributaria in pace, e in guerra.

  LXIX.

  Così diceva; e ‘l Capitano ai detti

  Quel che negar non si potea, concede:

  Sebben, ov’ella il suo partir affretti,

  548 In se tornar l’elezion ne vede:

  Ma nel numero ognun de’ dieci eletti

  Con insolita instanza esser richiede:

  E l’emulazion che ‘n lor si desta,

  552 Più importuni gli fa nella richiesta.

  LXX.

  Ella, che in essi mira aperto il core,

  Prende, vedendo ciò, novo argomento:

  E sul lor fianco adopra il rio timore

  556 Di gelosia per sferza e per tormento;

  Sapendo ben, ch’alfin s’invecchia amore

  Senza quest’arti, e divien pigro e lento;

  Quasi destrier che men veloce corra,

  560 Se non ha chi lui segua, o chi ‘l precorra.

  LXXI.

  E in tal modo comparte i detti sui,

  E ‘l guardo lusinghiero, e ‘l dolce riso,

  Ch’alcun non è che non invídi altrui:

  564 Nè il timor dalla speme è in lor diviso.

  La folle turba de gli amanti, a cui

  Stimolo è l’arte d’un fallace viso,

  Senza fren corre, e non gli tien vergogna,

  568 E loro indarno il Capitan rampogna.

  LXXII.

  Ei ch’egualmente satisfar desira

  Ciascuna delle parti, e in nulla pende;

  Sebben alquanto or di vergogna, or d’ira

  572 Al vaneggiar de’ cavalier s’accende;

  Poich’ostinati in quel desio li mira,

  Novo consiglio in accordarli prende.

  Scrivansi i vostri nomi, ed in un vaso

  576 Pongansi, disse, e sia giudice il caso.

  LXXIII.

  Subito il nome di ciascun si scrisse,

  E in picciol’urna posti e scossi foro,

  E tratti a sorte: e ‘l primo che n’uscisse

  580 Fu il Conte di Pembrozia Artemidoro.

  Legger poi di Gherardo il nome udisse:

  Ed usc�
� Vincilao dopo costoro:

  Vincilao, che sì grave e saggio innante,

  584 Canuto or pargoleggia e vecchio amante.

  LXXIV.

  Oh come il volto han lieto, e gli occhj pregni

  Di quel piacer che dal cor pieno inonda,

  Questi tre primi eletti, i cui disegni

  588 La fortuna in amor destra seconda.

  D’incerto cor, di gelosia dan segni

  Gli altri, il cui nome avvien che l’urna asconda:

  E dalla bocca pendon di colui

  592 Che spiega i brevi, e legge i nomi altrui.

  LXXV.

  Guasco quarto fuor venne, a cui successe

  Ridolfo, ed a Ridolfo indi Olderico;

  Quinci Guglielmo Ronciglion si lesse,

  596 E ‘l Bavaro Eberardo, e ‘l Franco Enrico:

  Rambaldo ultimo fu, che farsi elesse

  Poi, fe cangiando, di Gesù nemico;

  Tanto puote Amor dunque? e questi chiuse

  600 Il numero de’ dieci, e gli altri escluse.

  LXXVI.

  D’ira, di gelosia, d’invidia ardenti

  Chiaman gli altri Fortuna ingiusta e ria:

  A te accusano, Amor, che le consenti

  604 Che nell’imperio tuo giudice sia.

  Ma perchè instinto è dell’umane menti,

  Che ciò che più si vieta, uom più desia,

  Dispongon molti, ad onta di Fortuna,

  608 Seguir la donna, come il ciel s’imbruna.

  LXXVII.

  Voglion sempre seguirla all’ombra, al Sole,

  E per lei, combattendo, espor la vita.

  Ella fanne alcun motto, e con parole

  612 Tronche, e dolci sospiri a ciò gl’invita:

  Ed or con questo, ed or con quel si duole,

  Che far convienle senza lui partita.

  S’erano armati intanto, e da Goffredo

  616 Toglieano i dieci cavalier congedo.

  LXXVIII.

  Gli ammonisce quel saggio a parte a parte,

  Come la fe Pagana è incerta e leve,

  E mal sicuro pegno: e con qual’arte

  620 L’insidie, e i casi avversi uom fuggir deve.

  Ma son le sue parole al vento sparte:

  Nè consiglio d’uom saggio Amor riceve.

  Lor dà commiato alfine, e la Donzella

  624 Non aspetta al partir l’alba novella.

  LXXIX.

  Parte la vincitrice, e quei rivali,

  Quasi prigioni, al suo trionfo innanti

  Seco n’adduce, e tra infiniti mali

  628 Lascia la turba poi degli altri amanti.

  Ma come uscì la notte, e sotto l’ali

  Menò il silenzio, e i lievi sogni erranti;

  Secretamente, com’Amor gl’informa,

  632 Molti d’Armida seguitaron l’orma.

  LXXX.

  Segue Eustazio il primiero, e puote appena

  Aspettar l’ombre che la notte adduce.

  Vassene frettoloso, ove nel mena

  636 Per le tenebre cieche un cieco duce.

  Errò la notte tepida e serena;

  Ma poi, nell’apparir dell’alma luce,

  Gli apparse insieme Armida e ‘l suo drappello,

  640 Dove un borgo lor fu notturno ostello.

  LXXXI.

  Ratto ei ver lei si muove, ed all’insegna

  Tosto Rambaldo il riconosce, e grida

  Chè ricerchi fra loro, e perchè vegna.

  644 Vengo, risponde, a seguitarne Armida,

  Ned ella avrà da me, se non la sdegna,

  Men pronta aita, o servitù men fida.

  Replica l’altro: Ed a cotanto onore,

  648 Dì, chi t’elesse? egli soggiunge: Amore.

  LXXXII.

  Me scelse Amor, te la Fortuna: or quale

  Da più giusto elettore eletto parti?

  Dice Rambaldo allor: nulla ti vale

  652 Titolo falso, ed usi inutil’arti:

  Nè potrai della vergine regale

  Fra i campioni legitimi mischiarti,

  Illegittimo servo: e chi, riprende

  656 Cruccioso il giovinetto, a me il contende?

  LXXXIII.

  Io tel difenderò, colui rispose;

  E feglisi all’incontro in questo dire:

  E con voglie egualmente in lui sdegnose

  660 L’altro si mosse, e con eguale ardire.

  Ma quì stese la mano, e si frappose

  La tiranna dell’alme in mezzo all’ire;

  Ed all’uno dicea: deh non t’incresca

  664 Ch’a te compagno, a me campion s’accresca.

  LXXXIV.

  S’ami che salva i’ sia, perchè mi privi

  In sì grand’uopo della nova aita?

  Dice all’altro: opportuno, e grato arrivi

  668 Difensor di mia fama, e di mia vita.

  Nè vuol ragion, nè sarà mai ch’io schivi

  Compagnia nobil tanto, e sì gradita.

  Così parlando, ad or ad or tra via

  672 Alcun novo campion le sorvenia.

  LXXXV.

  Chi di là giunge, e chi di qua: nè l’uno

  Sapea dell’altro; e’l mira bieco e torto.

  Essa lieta gli accoglie, ed a ciascuno

  676 Mostra del suo venir gioja e conforto.

  Ma già nello schiarir dell’aer bruno

  S’era del lor partir Goffredo accorto:

  E la mente, indovina de’ lor danni,

  680 D’alcun futuro mal par che s’affanni.

  LXXXVI.

  Mentre a ciò pur ripensa, un messo appare

  Polveroso, anelante, in vista afflitto,

  In atto d’uom, ch’altrui novelle amare

  684 Porti, e mostri il dolore in fronte scritto.

  Disse costui: Signor, tosto nel mare

  La grande armata apparirà d’Egitto:

  E l’avviso, Guglielmo il qual comanda

  688 Ai liguri naviglj, a te ne manda.

  LXXXVII.

  Soggiunse a questo poi, che dalle navi

  Sendo condotta vettovaglia al campo,

  I cavalli, e i cammeli onusti e gravi

  692 Trovato aveano a mezza strada inciampo:

  E che i lor difensori uccisi, o schiavi

  Restar pugnando, e nessun fece scampo;

  Da’ ladroni d’Arabia, in una valle,

  696 Assaliti alla fronte ed alle spalle.

  LXXXVIII.

  E che l’insano ardire, e la licenza

  Di que’ barbari erranti è omai sì grande,

  Ch’in guisa d’un diluvio intorno, senza

  700 Alcun contrasto, si dilata e spande;

  Onde convien ch’a porre in lor temenza

  Alcuna squadra di guerrier si mande,

  Ch’assicuri la via che dalle arene

  704 Del mar di Palestina al campo viene.

  LXXXIX.

  D’una in un’altra lingua in un momento

  Ne trapassa la fama e si distende:

  E ‘l volgo de’ soldati alto spavento

  708 Ha della fame che vicina attende.

  Il saggio Capitan, che l’ardimento

  Solito loro in essi or non comprende,

  Cerca con lieto volto, e con parole,

  712 Come li rassicuri e riconsole.

  XC.

  O per mille periglj, e mille affanni

  Meco passati in quelle parti, e in queste,

  Campion di Dio, ch’a ristorare i danni

  716 Della Cristiana sua fede nasceste;

  Voi, che l’armi di Persia e i Greci inganni,

  E i monti e i mari, e ‘l vento e le tempeste,

  Della fame i disagj e della sete

  720 Superaste; voi dunque ora temete?

  XCI.

  Dunque il Signor, che n’indirizza, e move,

  Già conosciuto in caso assai più rio,

  Non v’assicura? quasi or volga altrove

  724 La man della clemenza, e ‘l guardo pio?

 
Tosto un dì fia, che rimembrar vi giove

  Gli scorsi affanni, e sciorre i voti a Dio.

  Or durate magnanimi, e voi stessi

  728 Serbate, prego, ai prosperi successi.

  XCII.

  Con questi detti le smarrite menti

  Consola, e con sereno e lieto aspetto;

  Ma preme mille cure egre e dolenti,

  732 Altamente riposte in mezzo al petto.

  Come possa nutrir sì varie genti

  Pensa, fra la penuria e fra ‘l difetto:

  Come all’armata in mar s’opponga, e come

  736 Gli Arabi predatori affreni, e dome.

  Canto sesto

  ARGOMENTO.

  Argante ogni Cristiano a giostra appella:

  Indi Otton, non eletto, a lui s’oppone

  Audace troppo, e tolto vien di sella;

  Onde sen va nella città prigione.

  Tancredi pur con lui pugna novella

  Comincia; ma a lei tregua il bujo impone.

  Erminia che del suo Signor si crede

  Curare il mal, muove notturna il piede.

  CANTO SESTO.

  Ma d’altra parte le assediate genti

  Speme miglior conforta e rassicura:

  Ch’oltre il cibo raccolto, altri alimenti

  4 Son lor dentro portati a notte oscura:

  Ed han munite d’arme e d’instrumenti

  Di guerra, verso l’aquilon, le mura,

  Che d’altezza accresciute, e sode, e grosse,

  8 Mostran di non temer d’urti o di scosse.

  II.

  E ‘l Re pur sempre queste parti, e quelle

  Lor fa innalzare, e rinforzare i fianchi,

  O l’aureo Sol risplenda, od alle stelle

  12 Ed alla Luna il fosco ciel s’imbianchi:

  E in far continuamente arme novelle

  Sudano i fabbri affaticati e stanchi.

  In sì fatto apparecchio, intollerante

  16 A lui sen venne, e ragionogli Argante.

  III.

  E insino a quando ci terrai prigioni

  Fra queste mura in vile assedio, e lento?

  Odo ben io stridere incudi, e suoni

  20 D’elmi e di scudi e di corazze io sento;

  Ma non veggio a qual uso: e quei ladroni

  Scorrono i campi, e i borghi a lor talento:

  Nè v’è di noi chi mai lor passo arresti,

  24 Nè tromba che dal sonno almen li desti.

  IV.

  A lor nè i prandj mai turbati e rotti,

  Nè molestate son le cene liete;

  Anzi egualmente i dì lunghi, e le notti

  28 Traggon con sicurezza e con quiete.

  Voi da i disagj, e dalla fame indotti

  A darvi vinti a lungo andar sarete,

  Od a morirne quì come codardi,

  32 Quando d’Egitto pur l’ajuto tardi.

  V.

  Io per me non vuò già ch’ignobil morte

  I giorni miei d’oscuro oblio ricopra:

  Nè vuò ch’al novo dì, fra queste porte,

  36 L’alma luce del Sol chiuso mi scopra.

 

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