Jerusalem Delivered
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Di questo viver mio faccia la sorte
Quel che già stabilito è là di sopra:
Non farà già, che senza oprar la spada,
40 Inglorioso e invendicato io cada.
VI.
Ma quando pur del valor vostro usato
Così non fosse in voi spento ogni seme,
Non di morir pugnando ed onorato,
44 Ma di vita, e di palma anco avrei speme.
A incontrare i nemici e ‘l nostro fato
Andianne pur deliberati insieme;
Chè spesso avvien che ne’ maggior periglj
48 Sono i più audaci gli ottimi consiglj.
VII.
Ma se nel troppo osar tu non isperi,
Nè sei d’uscir con ogni squadra ardito;
Procura almen, che sia per due guerrieri
52 Questo tuo gran litigio or difinito.
E perchè accetti ancor più volentieri
Il capitan de’ Franchi il nostro invito;
L’arme egli scelga, e ‘l suo vantaggio toglia:
56 E le condizion formi a sua voglia.
VIII.
Chè se ‘l nemico avrà due mani, ed una
Anima sola, ancor ch’audace e fera;
Temer non dei per isciagura alcuna,
60 Che la ragion, da me difesa, pera.
Puote, in vece di Fato e di Fortuna,
Darti la destra mia vittoria intera:
Ed a te se medesma or porge in pegno;
64 Chè, se ‘l confidi in lei, salvo è il tuo regno.
IX.
Tacque; e rispose il Re: giovane ardente,
Sebben me vedi in grave età seníle,
Non sono al ferro queste man sì lente,
68 Nè sì quest’alma è neghittosa e vile;
Ch’anzi morir volesse ignobilmente,
Che di morte magnanima e gentile;
Quand’io temenza avessi, o dubbio alcuno
72 De’ disagj ch’annunzi, e del digiuno.
X.
Cessi Dio tanta infamia. Or quel ch’ad arte
Nascondo altrui, vuò ch’a te sia palese.
Soliman di Nicea, che brama in parte
76 Di vendicar le ricevute offese,
Degli Arabi le schiere erranti e sparte
Raccolte ha fin dal Libico paese:
E i nemici assalendo all’aria nera,
80 Darne soccorso, e vettovaglia spera.
XI.
Tosto fia che quì giunga: or se frattanto
Son le nostre castella oppresse e serve,
Non ce ne caglia, purchè ‘l regal manto
84 E la mia nobil reggia io mi conserve.
Tu l’ardimento, e questo ardore alquanto
Tempra, per Dio, che ‘n te soverchio ferve:
Ed opportuna la stagione aspetta
88 Alla tua gloria, ed alla mia vendetta.
XII.
Forte sdegnossi il Saracino audace,
Ch’era di Solimano emulo antico;
Sì amaramente ora d’udir gli spiace
92 Che tanto sen prometta il Rege amico.
A tuo senno, risponde, e guerra e pace
Farai, Signor, nulla di ciò più dico.
S’indugi pure, e Soliman s’attenda;
96 Ei, che perdè il suo regno, il tuo difenda.
XIII.
Vengane a te, quasi celeste messo,
Liberator del popolo Pagano:
Ch’io, quanto a me, bastar credo a me stesso,
100 E sol vuò libertà da questa mano.
Or, nel riposo altrui, siami concesso
Ch’io ne discenda a guerreggiar nel piano:
Privato cavalier, non tuo campione,
104 Verrò co’ Franchi a singolar tenzone.
XIV.
Replica il Re: sebben l’ira e la spada
Dovresti riserbare a miglior uso;
Che tu sfidi però, se ciò t’aggrada,
108 Alcun guerrier nemico, io non ricuso.
Così gli disse; ed ei punto non bada.
Và, dice ad un araldo, or colà giuso,
Ed al Duce de’ Franchi, udendo l’oste,
112 Fà queste mie non picciole proposte.
XV.
Ch’un cavalier, che d’appiattarsi in questo
Forte cinto di muri a sdegno prende,
Brama di far con l’armi or manifesto
116 Quanto la sua possanza oltre si stende:
E ch’a duello di venirne è presto,
Nel pian ch’è fra le mura e l’alte tende,
Per prova di valore: e che disfida
120 Qual più de’ Franchi in sua virtù si fida.
XVI.
E che non solo è di pugnare accinto
E con uno, e con due del campo ostíle;
Ma dopo il terzo, il quarto accetta, e ‘l quinto,
124 Sia di volgare stirpe, o di gentile:
Dia, se vuol, la franchigia, e serva il vinto
Al vincitor, come di guerra è stile.
Così gl’impone: ed ei vestissi allotta
128 La purpurea dell’arme aurata cotta.
XVII.
E poi che giunse alla regal presenza
Del Principe Goffredo, e de’ Baroni,
Chiese: o Signore, ai messaggier licenza
132 Dassi tra voi di liberi sermoni?
Dassi, rispose il Capitano, e senza
Alcun timor la tua proposta esponi.
Riprese quegli: or si parrà, se grata
136 O formidabil fia l’alta ambasciata.
XVIII.
E seguì poscia, e la disfida espose
Con parole magnifiche, ed altere.
Fremer s’udiro, e si mostrar sdegnose
140 Al suo parlar quelle feroci schiere:
E senza indugio il pio Buglion rispose:
Dura impresa intraprende il cavaliere:
E tosto io creder vuò, che gliene incresca
144 Sì, che d’uopo non fia che ‘l quinto n’esca.
XIX.
Ma venga in prova pur, che d’ogn’oltraggio
Gli offero campo libero e sicuro;
E seco pugnerà senza vantaggio
148 Alcun de’ miei campioni: e così giuro.
Tacque; e tornò il Re d’arme al suo viaggio
Per l’orme, ch’al venir calcate furo:
E non ritenne il frettoloso passo,
152 Finchè non diè risposta al fier Circasso.
XX.
Armati, dice, alto Signor, chè tardi?
La disfida accettata hanno i Cristiani:
E d’affrontarsi teco i men gagliardi
156 Mostran desio, non che i guerrier soprani.
E mille i’ vidi minacciosi sguardi,
E mille al ferro apparecchiate mani:
Loco sicuro il Duce a te concede.
160 Così gli dice; e l’arme esso richiede.
XXI.
E se ne cinge intorno, e impaziente
Di scenderne s’affretta alla campagna.
Disse a Clorinda il Re, ch’era presente:
164 Giusto non è ch’ei vada, e tu rimagna.
Mille dunque con te di nostra gente
Prendi in sua sicurezza, e l’accompagna;
Ma vada innanzi a giusta pugna ei solo:
168 Tu lunge alquanto a lui ritien lo stuolo.
XXII.
Tacque ciò detto: e poi che furo armati,
Quei del chiuso n’uscivano all’aperto:
E giva innanzi Argante, e dagli usati
172 Arnesi in sul cavallo era coperto.
Loco fu tra le mura e gli steccati
Che nulla avea di diseguale, o d’erto,
Ampio e capace: e parea fatto ad arte,
176 Perch’egli fosse altrui campo di Marte.
XXIII.
Ivi solo discese, ivi fermosse
In vista de’ nemici il fero Argante:
Per gran cor, per gran corpo, e per gran posse
180 Superbo, e minaccevole in sembi
ante:
Qual Encelado in Flegra, o qual mostrosse
Nell’ima valle il Filisteo gigante.
Ma pur molti di lui tema non hanno,
184 Ch’anco quanto sia forte appien non sanno.
XXIV.
Alcun però dal pio Goffredo eletto
Come il migliore, ancor non è fra molti.
Ben si vedean con desioso affetto
188 Tutti gli occhj in Tancredi esser rivolti:
E dichiarato infra i miglior perfetto
Dal favor manifesto era de’ volti:
E s’udia non oscuro anco il bisbiglio:
192 E l’approvava il Capitan col ciglio.
XXV.
Già cedea ciascun altro, e non secreto
Era il volere omai del pio Buglione:
Vanne, a lui disse, a te l’uscir non vieto,
196 E reprimi il furor di quel fellone.
Ei tutto in volto baldanzoso e lieto,
Poichè d’impresa tal fatto è campione,
Allo scudier chiedea l’elmo e ‘l cavallo:
200 Poi seguíto da molti uscia del vallo.
XXVI.
Ed a quel largo pian fatto vicino,
Ove Argante l’attende, anco non era;
Quando in leggiadro aspetto e pellegrino
204 S’offerse agli occhj suoi l’alta guerriera.
Bianche, via più che neve in giogo alpino,
Avea le sopravveste, e la visiera
Alta tenea dal volto, e sovra un’erta,
208 Tutta, quanto ella è grande, era scoperta.
XXVII.
Già non mira Tancredi ove il Circasso
La spaventosa fronte al cielo estolle;
Ma move il suo destrier con lento passo,
212 Volgendo gli occhj ov’è colei sul colle.
Poscia immobil si ferma, e pare un sasso;
Gelido tutto fuor, ma dentro bolle:
Sol di mirar s’appaga, e di battaglia
216 Sembiante fa che poco or più gli caglia.
XXVIII.
Argante, che non vede alcun che in atto
Dia segno ancor d’apparecchiarsi in giostra,
Da desir di contesa io quì fui tratto,
220 Grida; or chi viene innanzi, e meco giostra?
L’altro attonito quasi e stupefatto
Pur là s’affissa, e nulla udir ben mostra.
Ottone innanzi allor spinse il destriero,
224 E nell’arringo voto entrò primiero.
XXIX.
Questi un fu di color, cui dianzi accese
Di gir contra il Pagano alto desio:
Pur cedette a Tancredi, e ‘n sella ascese
228 Fra gli altri, che ‘l seguiro, e seco uscío.
Or veggendo sue voglie altrove intese,
E starne lui quasi al pugnar restío;
Prende, giovine audace e impaziente,
232 L’occasione offerta avidamente.
XXX.
E veloce così, che tigre, o pardo
Va men ratto talor per la foresta,
Corre a ferir il Saracin gagliardo,
236 Che d’altra parte la gran lancia arresta.
Si scuote allor Tancredi, e dal suo tardo
Pensier, quasi da un sonno, alfin si desta:
E grida ei ben: la pugna è mia; rimanti.
240 Ma troppo Ottone è già trascorso innanti.
XXXI.
Onde si ferma, e d’ira e di dispetto
Avvampa dentro, e fuor qual fiamma è rosso;
Perch’ad onta si reca, ed a difetto,
244 Ch’altri si sia primiero in giostra mosso.
Ma intanto a mezzo il corso in su l’elmetto
Dal giovin forte è il Saracin percosso.
Egli all’incontro a lui col ferro nudo
248 Fende l’usbergo, e pria rompe lo scudo.
XXXII.
Cade il Cristiano; e ben è il colpo acerbo,
Posciach’avvien che dall’arcion lo svella.
Ma il Pagan di più forza, e di più nerbo
252 Non cade già, nè pur si torce in sella.
Indi con dispettoso atto superbo
Sovra il caduto cavalier favella:
Renditi vinto, e per tua gloria basti
256 Che dir potrai, che contra me pugnasti.
XXXIII.
No, gli risponde Otton, fra noi non s’usa
Così tosto depor l’arme, e l’ardire.
Altri del mio cader farà la scusa;
260 Io vuò far la vendetta, o quì morire.
In sembianza d’Aletto, e di Medusa
Freme il Circasso, e par che fiamma spire.
Conosci or, dice, il mio valore a prova,
264 Poichè la cortesia sprezzar ti giova.
XXXIV.
Spinge il destrier in questo, e tutto oblia
Quanto virtù cavalleresca chiede.
Fugge il Franco l’incontro, e si desvia,
268 E ‘l destro fianco nel passar gli fiede:
Ed è sì grave la percossa e ria,
Che ‘l ferro sanguinoso indi ne riede.
Ma che pro, se la piaga al vincitore
272 Forza non toglie, e giunge ira e furore?
XXXV.
Argante il corridor dal corso affrena,
E indietro il volge; e così tosto è volto,
Che se n’accorge il suo nemico appena,
276 E d’un grand’urto all’improviso è colto.
Tremar le gambe, indebolir la lena,
Sbigottir l’alma, e impallidire il volto
Gli fè l’aspra percossa; e frale e stanco
280 Sovra il duro terren battere il fianco.
XXXVI.
Nell’ira Argante infellonisce, e strada
Sovra il petto del vinto al destrier face.
E così, grida, ogni superbo vada
284 Come costui che sotto i piè mi giace.
Ma l’invitto Tancredi allor non bada;
Chè l’atto crudelissimo gli spiace:
E vuol che ‘l suo valor con chiara emenda
288 Copra il suo fallo, e, come suol, risplenda.
XXXVII.
Fassi innanzi gridando: anima vile,
Che ancor nelle vittorie infame sei:
Qual titolo di laude alto, e gentile
292 Da modi attendi sì scortesi e rei?
Fra i ladroni d’Arabia, o fra simíle
Barbara turba avezzo esser tu dei.
Fuggi la luce, e và con l’altre belve
296 A incrudelir ne’ monti, e tra le selve.
XXXVIII.
Tacque: e ‘l Pagano al sofferir poco uso
Morde le labbra, e di furor si strugge.
Risponder vuol, ma ‘l suono esce confuso,
300 Siccome strido d’animal che rugge:
O come apre le nubi, ond’egli è chiuso,
Impetuoso il fulmine, e se ‘n fugge;
Così pareva a forza ogni suo detto,
304 Tuonando, uscir dall’infiammato petto.
XXXIX.
Ma poi che in ambo il minacciar feroce
A vicenda irritò l’orgoglio e l’ira;
L’un come l’altro rapido e veloce,
308 Spazio al corso prendendo, il destrier gira.
Or quì, Musa, rinforza in me la voce,
E furor pari a quel furor m’inspira:
Sì, che non sian dell’opre indegni i carmi,
312 Ed esprima il mio canto il suon dell’armi.
XL.
Posero in resta, e dirizzaro in alto
I due guerrier le noderose antenne:
Nè fu di corso mai, nè fu di salto,
316 Nè fu mai tal velocità di penne,
Nè furia eguale a quella, ond’all’assalto
Quinci Tancredi, e quindi Argante venne.
Rupper l’aste su gli elmi, e volar mille
320 Tronconi e schegge, e lucide faville.
XLI.
Sol de’ colpi il rimbombo intorno mosse
L’immobil terra, e risonarne i monti;
Ma l’impeto, e ‘l furor delle percosse
324 Nulla piegò delle superbe fronti.
L’uno e l’altro cavallo in guisa urtosse,
Che non fur poi, cadendo, a sorger pronti.
Tratte le spade, i gran mastri di guerra
328 Lasciar le staffe, e i piè fermaro in terra.
Tratte le spade, i gran mastri di guerra
Lasciar le staffe, e i piè fermaro in terra.
XLII.
Cautamente ciascuno ai colpi move
La destra, ai guardi l’occhio, ai passi il piede:
Si reca in atti varj, e’n guardie nove.
332 Or gira intorno, or cresce innanzi, or cede:
Or quì ferire accenna, e poscia altrove,
Dove non minacciò, ferir si vede:
Or di se discoprire alcuna parte,
336 E tentar di schernir l’arte con l’arte.
XLIII.
Della spada Tancredi, e dello scudo
Mal guardato al Pagan dimostra il fianco.
Corre egli per ferirlo, e intanto nudo
340 Di riparo si lascia il lato manco.
Tancredi con un colpo il ferro crudo
Del nemico ribatte, e lui fere anco:
Nè poi, ciò fatto, in ritirarsi tarda,
344 Ma si raccoglie, e si ristringe in guarda.
XLIV.
Il fero Argante, che se stesso mira
Del proprio sangue suo macchiato e molle,
Con insolito orror freme, e sospira,
348 Di cruccio e di dolor, turbato e folle:
E portato dall’impeto e dall’ira,
Con la voce la spada insieme estolle:
E torna per ferire, ed è di punta
352 Piagato, ov’è la spalla al braccio giunta.
XLV.
Qual nelle alpestri selve orsa, che senta
Duro spiedo nel fianco, in rabbia monta:
E contra l’arme se medesma avventa,
356 E i periglj, e la morte audace affronta;
Tale il Circasso indomito diventa,
Giunta or piaga alla piaga, ed onta all’onta:
E la vendetta far tanto desia,
360 Che sprezza i rischj, e le difese oblia.
XLVI.
E congiungendo a temerario ardire
Estrema forza, e infaticabil lena,
Vien che sì impetuoso il ferro gire,
364 Che ne trema la terra, e ‘l ciel balena:
Nè tempo ha l’altro ond’un sol colpo tire,
Onde si copra, onde respiri appena:
Nè schermo v’è ch’assicurare il possa
368 Dalla fretta d’Argante e dalla possa.
XLVII.
Tancredi, in se raccolto, attende invano
Che de’ gran colpi la tempesta passi.
Or v’oppon le difese, ed or lontano
372 Sen va co’ giri, e co’ maestri passi.
Ma poichè non s’allenta il fier Pagano,
È forza alfin che trasportar si lassi:
E cruccioso egli ancor con quanta puote