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Jerusalem Delivered

Page 121

by Torquato Tasso

376 Violenza maggior la spada rote.

  XLVIII.

  Vinta dall’ira è la ragione e l’arte,

  E le forze il furor ministra, e cresce.

  Sempre che scende il ferro, o fora o parte,

  380 O piastra, o maglia: e colpo invan non esce.

  Sparsa è d’arme la terra, e l’arme sparte

  Di sangue, e ‘l sangue col sudor si mesce.

  Lampo nel fiammeggiar, nel romor tuono,

  384 Fulmini nel ferir le spade sono.

  XLIX.

  Questo popolo e quello incerto pende

  Da sì nuovo spettacolo ed atroce:

  E fra tema, e speranza il fin n’attende,

  388 Mirando or ciò che giova, or ciò che nuoce:

  E non si vede pur, ne pur s’intende

  Picciol cenno fra tanti, o bassa voce;

  Ma se ne sta ciascun tacito e immoto,

  392 Se non se inquanto ha il cor tremante in moto.

  L.

  Già lassi erano entrambi, e giunti forse

  Sarian, pugnando, ad immaturo fine;

  Ma sì oscura la notte intanto sorse,

  396 Che nascondea le cose anco vicine.

  Quinci un araldo, e quindi un altro accorse

  Per dipartirgli, e gli partiro al fine.

  L’uno il Franco Arideo, Pindoro è l’altro,

  400 Che portò la disfida, uom saggio e scaltro.

  LI.

  I pacifici scettri osar costoro

  Fra le spade interpor de’ combattenti,

  Con quella sicurtà che porgea loro

  404 L’antichissima legge delle genti.

  Siete, o guerrieri, incominciò Pindoro,

  Con pari onor di pari ambo possenti.

  Dunque cessi la pugna, e non sian rotte

  408 Le ragioni, e ‘l riposo della notte.

  LII.

  Tempo è da travagliar mentre il Sol dura;

  Ma nella notte ogni animale ha pace:

  E generoso cor non molto cura

  412 Notturno pregio, che s’asconde e tace.

  Risponde Argante: a me per ombra oscura

  La mia battaglia abbandonar non piace:

  Ben avrei caro il testimon del giorno;

  416 Ma che giuri costui di far ritorno.

  LIII.

  Soggiunse l’altro allora: e tu prometti

  Di tornar, rimenando il tuo prigione;

  Perch’altrimenti non fia mai ch’aspetti

  420 Per la nostra contesa altra stagione.

  Così giuraro: e poi gli araldi eletti

  A prescriver il tempo alla tenzone,

  Per dare spazio alle lor piaghe onesto,

  424 Stabiliro il mattin del giorno sesto.

  LIV.

  Lasciò la pugna orribile, nel core

  De’ Saracini e de’ Fedeli impressa

  Un’alta maraviglia, ed un orrore

  428 Che per lunga stagione in lor non cessa.

  Sol dell’ardir si parla, e del valore

  Che l’un guerriero e l’altro ha mostro in essa.

  Ma qual si debba di lor due preporre,

  432 Vario e discorde, il volgo in se discorre.

  LV.

  E sta sospeso, in aspettando, quale

  Avrà la fera lite avvenimento:

  E se ‘l furore alla virtù prevale,

  436 O se cede l’audacia all’ardimento.

  Ma più di ciascun altro, a cui ne cale,

  La bella Erminia n’ha cura e tormento:

  Chè da i giudícj dell’incerto Marte

  440 Vede pender di se la miglior parte.

  LVI.

  Costei, che figlia fu del Re Cassano

  Che d’Antiochia già l’imperio tenne,

  Preso il suo regno, al vincitor Cristiano

  444 Fra l’altre prede anch’ella in poter venne.

  Ma fulle in guisa allor Tancredi umano,

  Che nulla ingiuria in sua balía sostenne:

  Ed onorata fu, nella ruina

  448 Dell’alta patria sua, come Reina.

  LVII.

  L’onorò, la servì, di libertate

  Dono le fece il cavaliero egregio:

  E le furo da lui tutte lasciate

  452 Le gemme, e gli ori, e ciò ch’avea di pregio.

  Ella vedendo in giovinetta etate,

  E in leggiadri sembianti animo regio,

  Restò presa d’Amor, che mai non strinse

  456 Laccio di quel più fermo onde lei cinse.

  LVIII.

  Così se ‘l corpo libertà riebbe,

  Fu l’alma sempre in servitute astretta.

  Ben molto a lei d’abbandonar increbbe

  460 Il signor caro, e la prigion diletta;

  Ma l’onestà regal, che mai non debbe

  Da magnanima donna esser negletta,

  La costrinse a partirsi, e con l’antica

  464 Madre a ricoverarsi in terra amica.

  LIX.

  Venne a Gerusalemme, e quivi accolta

  Fu dal Tiranno del paese Ebreo;

  Ma tosto pianse, in nere spoglie avvolta,

  468 Della sua genitrice il fato reo.

  Pur, nè ‘l duol che le sia per morte tolta,

  Nè l’esilio infelice unqua poteo

  L’amoroso desio sveller dal core,

  472 Nè favilla ammorzar di tanto ardore.

  LX.

  Ama, ed arde la misera, e sì poco

  In tale stato chè sperar le avanza,

  Che nudrisce nel sen l’occulto foco,

  476 Di memoria via più, che di speranza:

  E quanto è chiuso in più secreto loco,

  Tanto ha l’incendio suo maggior possanza.

  Tancredi alfine, a risvegliar sua spene,

  480 Sovra Gerusalemme ad oste viene.

  LXI.

  Sbigottir gli altri all’apparir di tante

  Nazioni, e sì indomite, e sì fere;

  Fè sereno ella il torbido sembiante,

  484 E lieta vagheggiò le squadre altere:

  E con avidi sguardi il caro amante

  Cercando gía fra quelle armate schiere.

  Cercollo invan sovente, ed anco spesso

  488 Raffigurollo; e disse: egli è pur desso.

  LXII.

  Nel palagio regal sublime sorge

  Antica torre assai presso alle mura:

  Dalla cui sommità tutta si scorge

  492 L’oste Cristiana, e ‘l monte, e la pianura.

  Quivi, da che il suo lume il Sol ne porge,

  Infin che poi la notte il mondo oscura,

  S’asside, e gli occhj verso il campo gira,

  496 E co’ pensieri suoi parla, e sospira.

  LXIII.

  Quinci vide la pugna, e ‘l cor nel petto

  Sentì tremarsi in quel punto sì forte,

  Che parea che dicesse: il tuo diletto

  500 È quegli là, che in rischio è della morte.

  Così, d’angoscia piena e di sospetto,

  Mirò i successi della dubbia sorte:

  E sempre che la spada il Pagan mosse,

  504 Sentì nell’alma il ferro e le percosse.

  LXIV.

  Ma poichè ‘l vero intese, e intese ancora

  Che dee l’aspra tenzon rinovellarsi;

  Insolito timor così l’accora,

  508 Che sente il sangue suo di ghiaccio farsi.

  Talor secrete lagrime, e talora

  Sono occulti da lei gemiti sparsi:

  Pallida, esangue, e sbigottita in atto,

  512 Lo spavento e ‘l dolor v’avea ritratto.

  LXV.

  Con orribile imago il suo pensiero

  Ad or ad or la turba e la sgomenta:

  E via più che la morte il sonno è fiero;

  516 Sì strane larve il sogno le appresenta.

  Parle veder l’amato cavaliero

  Lacero e sanguinoso: e par che senta

  Ch’egli aita le chieda: e desta intanto,

  520 Si trova gli occhj e ‘l s
en molle di pianto.

  LXVI.

  Nè sol la tema di futuro danno

  Con sollecito moto il cor le scuote;

  Ma delle piaghe, ch’egli avea, l’affanno

  524 È cagion che quetar l’alma non puote.

  E i fallaci romor, ch’intorno vanno,

  Crescon le cose incognite e remote:

  Sicch’ella avvisa, che vicino a morte

  528 Giaccia oppresso languendo il guerrier forte.

  LXVII.

  E perocch’ella dalla madre apprese

  Qual più secreta sia virtù dell’erbe:

  E con quai carmi nelle membra offese

  532 Sani ogni piaga, e ‘l duol si disacerbe:

  Arte, che per usanza in quel paese

  Nelle figlie de’ Re par che si serbe;

  Vorria, di sua man propria, alle ferute

  536 Del suo caro signor recar salute.

  LXVIII.

  Ella l’amato medicar desia,

  E curar il nemico a lei conviene.

  Pensa talor d’erba nocente e ria

  540 Succo sparger in lui che l’avvelene;

  Ma schiva poi la man vergine e pia

  Trattar l’arti maligne, e se n’astiene.

  Brama ella almen che in uso tal sia vota

  544 Di sua virtude ogn’erba, ed ogni nota.

  LXIX.

  Nè già d’andar fra la nemica gente

  Temenza avria; chè peregrina era ita:

  E viste guerre e stragi avea sovente,

  548 E scorsa dubbia e faticosa vita:

  Sicchè per l’uso la femminea mente

  Sovra la sua natura è fatta ardita:

  Nè così di leggier si turba, o pave

  552 Ad ogni immagin di terror men grave.

  LXX.

  Ma più ch’altra cagion, dal molle seno

  Sgombra Amor temerario ogni paura:

  E crederia fra l’ugne, e fra ‘l veneno

  556 Delle Africane belve andar sicura.

  Pur, se non della vita, avere almeno

  Della sua fama dee temenza e cura.

  E fan dubbia contesa entro al suo core

  560 Duo potenti nemici Onore, e Amore.

  LXXI.

  L’un così le ragiona: o verginella,

  Che le mie leggi insino ad or serbasti,

  Io mentre ch’eri de’ nemici ancella,

  564 Ti conservai la mente, e i membri casti:

  E tu, libera, or vuoi perder la bella

  Verginità che in prigionia guardasti?

  Ahi nel tenero cor questi pensieri

  568 Chi svegliar può? chè pensi?, oimè, chè speri?

  LXXII.

  Dunque il titolo tu d’esser pudíca

  Sì poco stimi, e d’onestate il pregio;

  Che te n’andrai fra nazion nemica,

  572 Notturna amante, a ricercar dispregio?

  Onde il superbo vincitor ti dica:

  Perdesti il regno, e in un l’animo regio:

  Non sei di me tu degna; e ti conceda

  576 Volgare agli altri e mal gradita preda?

  LXXIII.

  Dall’altra parte il consiglier fallace

  Con tai lusinghe al suo piacer l’alletta:

  Nata non sei tu già d’orsa vorace,

  580 Nè d’aspro e freddo scoglio, o giovinetta,

  Ch’abbia a sprezzar d’Amor l’arco e la face,

  Ed a fuggir ognor quel che diletta:

  Nè petto hai tu di ferro, o di diamante,

  584 Che vergogna ti sia l’esser amante.

  LXXIV.

  Deh vanne omai dove il desio t’invoglia.

  Ma qual ti fingi vincitor crudele?

  Non sai com’egli al tuo dolor si doglia,

  588 Come compianga al pianto, alle querele?

  Crudel sei tu, che con sì pigra voglia

  Muovi a portar salute al tuo fedele.

  Langue, o fera ed ingrata, il pio Tancredi:

  592 E tu dell’altrui vita a cura siedi.

  LXXV.

  Sana tu pur Argante, acciocchè poi

  Il tuo liberator sia spinto a morte.

  Così disciolti avrai gli obblighi tuoi,

  596 E sì bel premio fia ch’ei ne riporte.

  È possibil però che non t’annoi

  Quest’empio ministero or così forte,

  Che la noja non basti e l’orror solo

  600 A far che tu di qua ten fugga a volo?

  LXXVI.

  Deh ben fora all’incontro uficio umano,

  E ben n’avresti tu gioja e diletto,

  Se la pietosa tua medica mano

  604 Avvicinassi al valoroso petto;

  Chè per te fatto il tuo signor poi sano

  Colorirebbe il suo smarrito aspetto:

  E le bellezze sue, che spente or sono,

  608 Vagheggeresti in lui, quasi tuo dono.

  LXXVII.

  Parte ancor poi nelle sue lodi avresti,

  E nell’opre ch’ei fesse alte e famose;

  Ond’egli te d’abbracciamenti onesti

  612 Faria lieta, e di nozze avventurose.

  Poi mostra a dito, ed onorata andresti

  Fra le madri Latine, e fra le spose

  Là nella bella Italia, ov’è la sede

  616 Del valor vero, e della vera fede.

  LXXVIII.

  Da tai speranze lusingata (ahi stolta!)

  Somma felicitate a se figura.

  Ma pur si trova in mille dubbj avvolta,

  620 Come partir si possa indi sicura:

  Perchè vegghian le guardie, e sempre in volta

  Van di fuori al palagio, e su le mura:

  Nè porta alcuna, in tal rischio di guerra,

  624 Senza grave cagion mai si disserra.

  LXXIX.

  Soleva Erminia in compagnia sovente

  Della Guerriera far lunga dimora.

  Seco la vide il Sol dall’Occidente:

  628 Seco la vide la novella aurora.

  E quando son del dì le luci spente,

  Un sol letto le accolse ambe talora:

  E null’altro pensier, che l’amoroso,

  632 L’una vergine all’altra avrebbe ascoso.

  LXXX.

  Questo sol tiene Erminia a lei secreto,

  E se udita da lei talor si lagna,

  Reca ad altra cagion del cor non lieto

  636 Gli affetti, e par che di sua sorte piagna.

  Or in tanta amistà, senza divieto,

  Venir sempre ne puote alla compagna:

  Nè stanza al giunger suo giamai si serra,

  640 Siavi Clorinda, o sia in consiglio, o ‘n guerra.

  LXXXI.

  Vennevi un giorno ch’ella in altra parte

  Si ritrovava, e si fermò pensosa,

  Pur tra se rivolgendo i modi e l’arte

  644 Della bramata sua partenza ascosa.

  Mentre in varj pensier divide e parte

  L’incerto animo suo che non ha posa;

  Sospese di Clorinda in alto mira

  648 L’arme, e le sopravveste: allor sospira.

  LXXXII.

  E tra se dice, sospirando: o quanto

  Beata è la fortissima Donzella!

  Quant’io la invidio! e non le invidio il vanto,

  652 O ‘l femminil onor dell’esser bella.

  A lei non tarda i passi il lungo manto:

  Nè ‘l suo valor rinchiude invida cella;

  Ma veste l’armi, e se d’uscirne agogna,

  656 Vassene, e non la tien tema o vergogna.

  LXXXIII.

  Ah perchè forti a me Natura, e ‘l Cielo

  Altrettanto non fer le membra, e ‘l petto,

  Onde potessi anch’io la gonna, e ‘l velo

  660 Cangiar nella corazza, e nell’elmetto?

  Chè sì non riterrebbe arsura, o gelo,

  Non turbo, o pioggia il mio infiammato affetto;

  Ch’al Sol non fossi ed al notturno lampo,

  664 Accompagnata o sola, armata in
campo.

  LXXXIV.

  Già non avresti, o dispietato Argante,

  Col mio signor pugnato tu primiero;

  Ch’io sarei corsa ad incontrarlo innante,

  668 E forse or fora quì mio prigionero:

  E sosterria dalla nemica amante

  Giogo di servitù dolce e leggiero.

  E già per li suoi nodi i’ sentirei

  672 Fatti soavi, e alleggeriti i miei.

  LXXXV.

  Ovvero a me, dalla sua destra il fianco

  Sendo percosso, e riaperto il core;

  Pur risanata in cotal guisa almanco

  676 Colpo di ferro avria piaga d’Amore.

  Ed or la mente in pace, e ‘l corpo stanco

  Riposeriansi: e forse il vincitore

  Degnato avrebbe il mio cenere e l’ossa

  680 D’alcun onor di lagrime, e di fossa.

  LXXXVI.

  Ma lassa! i’ bramo non possibil cosa,

  E tra folli pensier invan m’avvolgo.

  Dunque io starò quì timida e dogliosa,

  684 Com’una pur del vil femmineo volgo?

  Ah non starò; cor mio confida, ed osa.

  Perchè l’arme una volta anch’io non tolgo?

  Perchè per breve spazio non potrolle

  688 Sostener, benchè sia debile e molle?

  LXXXVII.

  Sì potrò, sì;, chè mi farà possente

  Amor, ond’alta forza i men forti hanno;

  Da cui spronati ancor s’arman sovente

  692 D’ardire i cervi imbelli, e guerra fanno.

  Io guerreggiar non già, vuò solamente

  Far con quest’armi un ingegnoso inganno:

  Finger mi vuò Clorinda, e, ricoperta

  696 Sotto l’immagin sua, d’uscir son certa.

  LXXXVIII.

  Non ardirieno a lei fare i custodi

  Dell’alte porte resistenza alcuna.

  Io pur ripenso, e non veggio altri modi:

  700 Aperta è, credo, questa via sol’una.

  Or favorisca le innocenti frodi

  Amor, che le m’inspira, e la fortuna.

  E ben al mio partir comoda è l’ora,

  704 Mentre col Re Clorinda anco dimora.

  LXXXIX.

  Così risolve, e stimolata e punta

  Dalle furie d’amor più non aspetta;

  Ma da quella alla sua stanza congiunta

  708 L’arme involate di portar s’affretta.

  E far lo può, chè quando ivi fu giunta

  Diè loco ogn’altro, e si restò soletta:

  E la notte i suoi furti ancor copria,

  712 Ch’ai ladri amica ed agli amanti uscia.

  XC.

  Essa veggendo il ciel, d’alcuna stella

  Già sparso intorno, divenir più nero;

  Senza frapporvi alcun indugio, appella

  716 Secretamente un suo fedel scudiero,

  Ed una sua leal diletta ancella:

  E parte scopre lor del suo pensiero;

  Scopre il disegno della fuga, e finge

  720 Ch’altra cagione a dipartir l’astringe.

  XCI.

  Lo scudiero fedel subito appresta

 

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