Jerusalem Delivered
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Dal fianco dell’amante, estranio arnese,
Un cristallo pendea lucido e netto.
Sorse, e quel fra le mani a lui sospese,
156 Ai misterj d’Amor ministro eletto.
Con luci ella ridenti, ei con accese,
Mirano in varj oggetti un sol oggetto:
Ella del vetro a se fa specchio: ed egli
160 Gli occhj di lei sereni a sè fa speglj.
XXI.
L’uno di servitù, l’altra d’impero
Si gloria: ella in se stessa, ed egli in lei.
Volgi, dicea, deh volgi, il cavaliero
164 a me quegli occhj, onde beata bei:
Chè son, se tu no ‘l sai, ritratto vero
Delle bellezze tue gl’incendj miei.
La forma lor, le meraviglie appieno,
168 Più che ‘l cristallo tuo, mostra il mio seno.
XXII.
Deh, poichè sdegni me, com’egli è vago
Mirar tu almen potessi il proprio volto:
Chè ‘l guardo tuo, ch’altrove non è pago,
172 Gioirebbe felice in se rivolto.
Non può specchio ritrar sì dolce imago:
Nè in picciol vetro è un paradiso accolto.
Specchio t’è degno il Cielo, e nelle stelle
176 Puoi riguardar le tue sembianze belle.
XXIII.
Ride Armida a quel dir: ma non che cesse
Dal vagheggiarsi, o da’ suoi bei lavori.
Poichè intrecciò le chiome, e che ripresse
180 Con ordin vago i lor lascivi errori,
Torse in anella i crin minuti, e in esse,
Quasi smalto su l’or, consparse i fiori:
E nel bel sen le peregrine rose
184 Giunse ai nativi giglj, e ‘l vel compose.
XXIV.
Nè il superbo pavon sì vago in mostra
Spiega la pompa delle occhiute piume:
Nè l’Iride sì bella indora e inostra
188 Il curvo grembo e rugiadoso al lume.
Ma bel sovra ogni fregio il cinto mostra,
Che neppur nuda ha di lasciar costume.
Diè corpo a chi non l’ebbe; e, quando il fece
192 Tempre mischiò ch’altrui mescer non lece;
XXV.
Teneri sdegni, e placide e tranquille
Repulse, e cari vezzi, e liete paci,
Sorrisi, parolette, e dolci stille
196 Di pianto, e sospir tronchi, e molli bacj;
Fuse tai cose tutte, e poscia unille,
Ed al foco temprò di lente faci:
E ne formò quel sì mirabil cinto,
200 Di ch’ella aveva il bel fianco succinto.
XXVI.
Fine alfin posto al vagheggiar, richiede
A lui commiato, e ‘l bacia, e si diparte.
Ella per uso il dì n’esce, e rivede
204 Gli affari suoi, le sue magiche carte.
Egli riman; chè a lui non si concede
Por orma, o trar momento in altra parte:
E tra le fere spazia e tra le piante,
208 Se non quanto è con lei, romito amante.
XXVII.
Ma quando l’ombra co’ silenzj amici
Rappella ai furti lor gli amanti accorti;
Traggono le notturne ore felici
212 Sotto un tetto medesmo entro a quegli orti.
Ma poichè volta a più severi uficj
Lasciò Armida il giardino, e i suoi diporti;
I duo, che tra i cespuglj eran celati,
216 Scoprirsi a lui pomposamente armati.
XXVIII.
Qual feroce destrier ch’al faticoso
Onor dell’arme vincitor sia tolto:
E lascivo marito, in vil riposo,
220 Fra gli armenti e ne’ paschi erri disciolto;
Se ‘l desta o suon di tromba, o luminoso
Acciar, colà tosto annitrendo è volto;
Già già brama l’arringo, e l’uom sul dorso
224 Portando, urtato riurtar nel corso.
XXIX.
Tal si fece il Garzon, quando repente
Dell’arme il lampo gli occhj suoi percosse.
Quel sì guerrier, quel sì feroce ardente
228 Suo spirto a quel fulgor tutto si scosse:
Benchè tra gli agj morbidi languente,
E tra i piaceri ebbro e sopito ei fosse.
Intanto Ubaldo oltra ne viene, e ‘l terso
232 Adamantino scudo ha in lui converso.
XXX.
Egli al lucido scudo il guardo gira;
Onde si specchia in lui qual siasi, e quanto,
Con delicato culto adorno, spira
236 Tutto odori e lascivie il crine e ‘l manto:
E ‘l ferro, il ferro aver non ch’altro, mira
Dal troppo lusso effeminato a canto.
Guernito è sì che inutile ornamento
240 Sembra, non militar fero instrumento.
XXXI.
Qual’uom da cupo e grave sonno oppresso
Dopo vaneggiar lungo in se riviene;
Tal ei tornò nel rimirar se stesso:
244 Ma se stesso mirar già non sostiene.
Giù cade il guardo: e timido e dimesso
Guardando, a terra la vergogna il tiene.
Si chiuderebbe e sotto il mare e dentro
248 Il foco, per celarsi, e giù nel centro.
XXXII.
Ubaldo incominciò parlando allora:
Va l’Asia tutta, e va l’Europa in guerra:
Chiunque pregio brama, e Cristo adora,
252 Travaglia in arme or nella Siria terra.
Te solo, o figlio di Bertoldo, fuora
Del mondo, in ozio, un breve angolo serra;
Te sol dell’universo il moto nulla
256 Move, egregio campion d’una fanciulla!
XXXIII.
Qual sonno, o qual letargo ha sì sopita
La tua virtute? o qual viltà l’alletta?
Su su, te il campo, e te Goffredo invita:
260 Te la fortuna, e la vittoria aspetta.
Vieni, o fatal guerriero, e sia finita
La ben comincia impresa: e l’empia setta,
Che già crollasti, a terra estinta cada
264 Sotto l’inevitabile tua spada.
XXXIV.
Tacque; e ‘l nobil Garzon restò per poco
Spazio confuso, e senza moto e voce.
Ma poi che diè vergogna a sdegno loco,
268 Sdegno guerrier della ragion feroce,
E che al rossor del volto un novo foco
Successe che più avvampa, e che più coce;
Squarciossi i vani fregj, e quelle indegne
272 Pompe, di servitù misera insegne.
XXXV.
Ed affrettò il partire, e della torta
Confusione uscì del laberinto.
Intanto Armida della regal porta
276 Mirò giacere il fier custode estinto.
Sospettò prima, e si fu poscia accorta
Ch’era il suo caro al dipartirsi accinto:
E ‘l vide (ahi fera vista!) al dolce albergo
280 Dar frettoloso fuggitivo il tergo.
XXXVI.
Volea gridar: dove, o crudel, me sola
Lasci? ma il varco al suon chiuse il dolore:
Sicchè tornò la flebile parola
284 Più amara indietro a rimbombar sul core.
Misera, i suoi diletti ora le invola
Forza e saper del suo saper maggiore.
Ella se ‘l vede, e invan pur s’argomenta
288 Di ritenerlo, e l’arti sue ritenta.
XXXVII.
Quante mormorò mai profane note
Tessala maga con la bocca immonda:
Ciò ch’arrestar può le celesti rote,
292 E l’ombre trar della prigion profonda,
Sapea ben tutto: e pur oprar non puote,
Ch’almen l’Inferno al suo parlar risponda.
Lascia gl’in
canti, e vuol provar se vaga
296 E supplice beltà sia miglior maga.
XXXVIII.
Corre, e non ha d’onor cura o ritegno.
Ahi dove or sono i suoi trionfi e i vanti?
Costei d’Amor, quanto egli è grande, il regno
300 Volse e rivolse sol col cenno innanti:
E così pari al fasto ebbe lo sdegno,
Ch’amò d’esser amata, odiò gli amanti:
Sè gradì sola, e fuor di sè in altrui
304 Sol qualche effetto de’ begli occhj sui.
XXXIX.
Or negletta e schernita, e in abbandono
Rimasa, segue pur chi fugge e sprezza:
E procura adornar co’ pianti il dono
308 Rifiutato per se di sua bellezza.
Vassene; ed al piè tenero non sono
Quel gelo intoppo e quella alpina asprezza,
E invia per messaggieri innanzi i gridi:
312 Nè giunge lui pria ch’ei sia giunto ai lidi.
XL.
Forsennata gridava: o tu che porte
Teco parte di me, parte ne lassi;
O prendi l’una o rendi l’altra, o morte
316 Dà insieme ad ambe: arresta, arresta i passi,
Sol che ti sian le voci ultime porte,
Non dico i bacj; altra più degna avrassi
Questi da te. Chè temi, empio, se resti?
320 Potrai negar, poi che fuggir potesti.
XLI.
Dissegli Ubaldo allor: già non conviene
Che d’aspettar costei, Signor, ricusi.
Di beltà armata, e de’ suoi preghi or viene
324 Dolcemente nel pianto amaro infusi.
Qual più forte di te, se le Sirene
Vedendo ed ascoltando a vincer t’usi?
Così ragion pacifica Reina
328 De’ sensi fassi, e se medesma affina.
XLII.
Allor ristette il Cavaliero: ed ella
Sovraggiunse anelante e lagrimosa:
Dolente sì che nulla più, ma bella
332 Altrettanto però quanto dogliosa.
Lui guarda, e in lui s’affisa, e non favella:
O che sdegna, o che pensa, o che non osa.
Ei lei non mira, e se pur mira, il guardo
336 Furtivo volge e vergognoso e tardo.
XLIII.
Qual musico gentil, prima che chiara
Altamente la lingua al canto snodi;
All’armonia gli animi altrui prepara
340 Con dolci ricercate in bassi modi:
Così costei, che nella doglia amara
Già tutte non oblia l’arti e le frodi;
Fa di sospir breve concento in prima,
344 Per dispor l’alma in cui le voci imprima.
XLIV.
Poi cominciò: non aspettar ch’io preghi,
Crudel, te, come amante amante deve:
Tai fummo un tempo: or se tal esser neghi,
348 E di ciò la memoria anco t’è greve;
Come nemico almeno ascolta: i preghi
D’un nemico talor l’altro riceve.
Ben quel ch’io chieggio è tal che darlo puoi,
352 E integri conservar gli sdegni tuoi.
XLV.
Se m’odj, e in ciò diletto alcun tu senti,
Non ten’vengo a privar: godi pur d’esso.
Giusto a te pare, e siasi; anch’io le genti
356 Cristiane odiai (nol nego) odiai te stesso.
Nacqui Pagana: usai varj argomenti,
Chè per me fosse il vostro imperio oppresso:
Te perseguii, te presi, e te lontano
360 Dall’arme trassi in loco ignoto e strano.
XLVI.
Aggiungi a questo ancor quel ch’a maggiore
Onta tu rechi, ed a maggior tuo danno:
T’ingannai, t’allettai nel nostro amore;
364 Empia lusinga, certo, iniquo inganno,
Lasciarsi corre il virginal suo fiore;
Far delle sue bellezze altrui tiranno:
Quelle ch’a mille antichi in premio sono
368 Negate, offrire a novo amante in dono.
XLVII.
Sia questa pur tra le mie frodi: e vaglia
Sì di tante mie colpe in te il difetto,
Che tu quinci ti parta, e non ti caglia
372 Di questo albergo tuo già sì diletto.
Vattene: passa il mar: pugna, travaglia:
Struggi la fede nostra; anch’io t’affretto.
Chè dico nostra? ah non più mia; fedele
376 Sono a te solo, idolo mio crudele.
XLVIII.
Solo ch’io segua te mi si conceda:
Picciola fra’ nemici anco richiesta;
Non lascia indietro il predator la preda:
380 Va il trionfante, il prigionier non resta.
Me fra l’altre tue spoglie il campo veda,
Ed all’altre tue lodi aggiunga questa;
Che la tua schernitrice abbia schernito,
384 Mostrando me sprezzata ancella a dito.
XLIX.
Sprezzata ancella, a chi fo più conserva
Di questa chioma, or ch’a te fatta è vile?
Raccorcierolla: al titolo di serva
388 Vuò portamento accompagnar servile.
Te seguirò, quando l’ardor più ferva
Della battaglia, entro la turba ostíle.
Animo ho bene, ho ben vigor che baste
392 A condurti i cavalli, a portar l’aste.
L.
Sarò qual più vorrai scudiere o scudo:
Non fia che in tua difesa io mi risparmi.
Per questo sen, per questo collo ignudo,
396 Pria che giungano a te, passeran l’armi.
Barbaro forse non sarà sì crudo,
Che ti voglia ferir per non piagarmi;
Condonando il piacer della vendetta
400 A questa, qual si sia, beltà negletta.
LI.
Misera, ancor presumo? ancor mi vanto
Di schernita beltà che nulla impetra?
Volea più dir; ma l’interruppe il pianto,
404 Che qual fonte sorgea d’alpina pietra.
Prendergli cerca allor la destra o ‘l manto,
Supplichevole in atto, ed ei s’arretra.
Resiste, e vince: e in lui trova impedita
408 Amor l’entrata, il lagrimar l’uscita.
LII.
Non entra Amor a rinovar nel seno,
Che ragion congelò, la fiamma antica.
V’entra pietate in quella vece almeno,
412 Pur compagna d’Amor, benchè pudíca:
E lui commove in guisa tal ch’a freno
Può ritener le lagrime a fatica.
Pur quel tenero affetto entro ristringe,
416 E quanto può gli atti compone, e infinge.
LIII.
Poi le risponde: Armida, assai mi pesa
Di te; sì potess’io, come il farei,
Del mal concetto ardor l’anima accesa
420 Sgombrarti; odj non son, nè sdegni i miei:
Nè vuò vendetta: nè rammento offesa:
Nè serva tu, nè tu nemica sei.
Errasti, è vero, e trapassasti i modi,
424 Ora gli amori esercitando, or gli odj.
LIV.
Ma che? son colpe umane, e colpe usate.
Scuso la natia legge, il sesso, e gli anni.
Anch’io parte fallii: se a me pietate
428 Negar non vuò, non fia ch’io te condanni.
Fra le care memorie ed onorate
Mi sarai nelle gioje, e negli affanni:
Sarò tuo cavalier, quanto concede
432 La guerra d’Asia, e con l’onor la fede.
LV.
Deh! che del fallir nostro or quì sia il fine;
E di nostre vergogne omai ti spiaccia:
Ed in questo del mondo ermo confine
436 La memoria di lor sepolta giaccia.
Sola, in Eur
opa e nelle due vicine
Parti, fra l’opre mie questa si taccia.
Deh non voler che segni ignobil fregio
440 Tua beltà, tuo valor, tuo sangue regio.
LVI.
Rimanti in pace; i’ vado: a te non lice
Meco venir; chi mi conduce il vieta.
Rimanti, o va per altra via felice,
444 E come saggia i tuoi consiglj acqueta.
Ella, mentre il guerrier così le dice,
Non trova loco torbida inquieta:
Già buona pezza in dispettosa fronte
448 Torva il riguarda, alfin prorompe all’onte.
LVII.
Nè te Sofia produsse, e non sei nato
Dell’Azzio sangue tu: te l’onda insana
Del mar produsse, e ‘l Caucaso gelato,
452 E le mamme allattar di tigre Ircana.
Che dissimulo io più? l’uomo spietato
Pur un segno non diè di mente umana.
Forse cambiò color? forse al mio duolo
456 Bagnò almen gli occhj, o sparse un sospir solo?
LVIII.
Quali cose tralascio, e quai ridico?
S’offre per mio: mi fugge, e m’abbandona.
Quasi buon vincitor, di reo nemico
460 Oblia le offese, e i falli aspri perdona.
Odi come consiglia, odi il pudíco
Senocrate d’Amor come ragiona.
O Cielo, o Dei, perchè soffrir questi empj,
464 Fulminar poi le torri, e i vostri tempj?
LIX.
Vattene pur, crudel, con quella pace
Che lasci a me: vattene iniquo omai;
Me tosto ignudo spirto, ombra seguace
468 Indivisibilmente a tergo avrai.
Nuova furia co’ serpi e con la face
Tanto t’agiterò quanto t’amai.
E s’è destin ch’esca del mar, che schivi
472 Gli scoglj e l’onde, e ch’alla pugna arrivi:
LX.
Là tra ‘l sangue e le morti egro giacente
Mi pagherai le pene, empio guerriero.
Per nome Armida chiamerai sovente
476 Negli ultimi singulti; udir ciò spero.....
Or quì mancò lo spirto alla dolente;
Nè quest’ultimo suono espresse intero:
E cadde tramortita, e si diffuse
480 Di gelato sudore, e i lumi chiuse.
LXI.
Chiudesti i lumi, Armida: il Cielo avaro
Invidiò il conforto a’ tuoi martírj.
Apri, misera, gli occhj; il pianto amaro
484 Negli occhj al tuo nemico or chè non miri?
O s’udir tu ‘l potessi, o come caro
T’addolcirebbe il suon de’ suoi sospiri!
Dà quanto ei puote; ei prende (e tu nol credi)
488 Pietoso in vista gli ultimi congedi.
LXII.
Or che farà? dee su l’ignuda arena
Costei lasciar così tra viva e morta?
Cortesia lo ritien, pietà l’affrena,
492 Dura necessità seco ne ‘l porta.
Parte, e di lievi zefiri è ripiena