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Sussurri

Page 53

by Dean Koontz


  Luce.

  La luce grigiastra del pomeriggio che arrivava obliqua dalle Mayacamas inondò la soglia, illuminando la cucina.

  Luce.

  Per un istante, rimase fermo sulla porta, lasciandosi av­volgere da quella luce meravigliosa. Grondava di sudore. Il respiro si era fatto pesante e irregolare.

  Quando infine riuscì a calmarsi, tornò nella dispensa. L'odore rivoltante proveniva dalle muffe e dai funghi che si erano formati sulle cibarie sparse ovunque, in seguito all'esplosione dei barattoli. Cercando di non impiastricciarsi, riuscì a trovare le candele e i fiammiferi. I fiammiferi erano ancora asciutti e utilizzabili. Ne accese uno per prova e quella fiammella fu un vero sollievo per la sua anima.

  A ovest del Cessna, che volava a centinaia di piedi dal suolo, si avvicinavano nuvole minacciose provenienti dal Pacifico.

  "Ma come?" domandò ancora una volta Joshua. "Com'è riuscita Katherine a far agire e pensare i gemelli come se fossero una persona sola?"

  "Probabilmente non lo sapremo mai," rispose Hilary. "Ma secondo me quella donna deve aver condiviso le pro­prie fantasie con i gemelli dal giorno in cui li ha portati a casa, quando ancora non erano in grado di capire quello che stava dicendo. Katherine avrà ripetuto loro centinaia, forse migliaia di volte che erano figli del diavolo. Avrà rac­contato che erano nati ricoperti dalla membrana amniotica, spiegando il significato di quel marchio. Li avrà convinti che i loro organi sessuali erano diversi da quelli degli altri ragazzini. Probabilmente li avrà anche spaventati dicendo loro che se gli altri avessero scoperto la loro diversità, li avrebbero uccisi. Quando raggiunsero l'età in cui la curio­sità avrebbe dovuto spingerli a chiedere spiegazioni, ave­vano ormai subito un lavaggio del cervello tale da non es­sere in grado di mettere in dubbio le parole della madre. Ormai condividevano la sua psicosi e le sue fantasie. I due ragazzini vivevano probabilmente in uno stato di costante tensione, timorosi di essere scoperti e quindi uccisi. La paura genera lo stress e la tensione aveva reso la loro psi­che estremamente fragile. Credo che un lungo periodo di stress ininterrotto potrebbe creare l'atmosfera adatta per una fusione della personalità come quella descritta da Tony. Lo stato di tensione prolungato non può essere stato la causa unica di quella fusione, ma potrebbe aver prepa­rato il terreno per la sua definitiva attuazione."

  Tony proseguì: "Dai nastri che abbiamo ascoltato questa mattina nello studio del dottor Rudge, risulta che Bruno sapeva che lui e il fratello erano nati con la membrana amniotica. Sappiamo inoltre che era a conoscenza delle super­stizioni collegate a quel raro fenomeno. Dal tono della sua voce sulla cassetta, direi che possiamo tranquillamente de­sumere che Bruno era convinto, come lo era la madre, di essere figlio del demonio. E ci sono altre prove che confer­mano questa teoria. Per esempio, la lettera nella cassetta di sicurezza. Bruno aveva scritto di non poter chiedere la protezione della polizia contro la madre perché altrimenti avrebbero scoperto la sua vera natura e tutto quello che aveva sempre tenuto nascosto. Affermava inoltre che la gente l'avrebbe ammazzato se avesse scoperto chi era. Era convinto di essere il figlio del demonio. Ne sono sicuro. Aveva assorbito le fantasie psicotiche di Katherine."

  "D'accordo," commentò Joshua. "Forse entrambi i fra­telli credevano alla faccenda del diavolo perché non ave­vano mai avuto la possibilità di dubitarne. Però tutto que­sto non spiega come o perché Katherine abbia modellato in una sola persona i figli, come abbia fatto a fondere... le loro personalità, come dice lei."

  "Il perché è semplice," continuò Hilary. "Se i gemelli si fossero considerati come individui distinti, fra loro sareb­bero sempre esistite delle differenze, seppure minime. E proprio a causa di queste differenze, uno dei due avrebbe potuto involontariamente mandare all'aria l'intero piano. Solo se i due fratelli avessero parlato, agito, pensato nello stesso modo, lei sarebbe stata salva."

  "E per quanto riguarda il come" spiegò Tony, "non deve dimenticare che Katherine sapeva come distruggere e mo­dellare una mente. In fin dei conti, lei era stata plasmata da un autentico maestro: Leo. Lui aveva utilizzato tutti i mezzi possibili e immaginabili per trasformare la figlia in ciò che voleva che fosse e Katherine non aveva potuto fa­re a meno di apprendere quegli insegnamenti. Vere e pro­prie tecniche di tortura fisica e psicologica. Probabilmen­te Katherine avrebbe potuto scrivere un saggio sull'argo­mento."

  "E per fare in modo che i gemelli pensassero come un'u­nica entità," continuò Hilary, "doveva trattarli come fos­sero stati una persona sola. In altre parole, doveva istruirli alla perfezione. Doveva amarli nello stesso modo, punirli per il capriccio di uno solo, premiarli per il merito di uno solo, trattare i due corpi come se possedessero la stessa mente. Doveva parlare loro come se fossero stati una sola persona e non due."

  "E ogni volta che scorgeva un tratto di individualità do­veva cercare di farlo possedere a entrambi, oppure estir­parlo dal gemello che aveva mostrato tale caratteristica. E naturalmente era molto importante l'uso dei pronomi," proseguì Tony.

  "L'uso dei pronomi?" domandò Joshua, perplesso.

  "Sì," spiegò Tony. "Forse vi sembrerà assurdo o persino privo di importanza. Ma più di ogni altra cosa noi ci identi­fichiamo attraverso il linguaggio. È attraverso il linguaggio che esprimiamo le nostre opinioni e i nostri pensieri. Un modo di pensare elementare porta a utilizzare un linguag­gio altrettanto elementare. Ma è anche vero il contrario: un linguaggio impreciso causa una certa confusione mentale. È uno dei principi fondamentali della semantica. È logico quindi formulare la teoria secondo la quale un uso alterato dei pronomi permette di costruire un'immagine alterata di se stessi, proprio quell'immagine che Katherine voleva ve­nisse adottata dai gemelli. Per esempio, quando i due ra­gazzi parlavano fra di loro, non potevano mai usare il pro­nome 'tu' perché 'tu' racchiude il concetto di un essere di­verso da sé. Se ai gemelli veniva imposto di pensare a loro stessi come a un'unica entità, allora il pronome 'tu' non aveva senso. Un Bruno non avrebbe mai potuto dire all'al­tro: 'Perché io e te non facciamo una partita a Monopoli?' Avrebbe invece chiesto qualcosa di questo genere: 'Perché non faccio una partita a Monopoli con me stesso?' Non po­teva usare il pronome 'noi' quando parlava di se stesso e del fratello, poiché quel pronome indica la presenza di al­meno due persone. Quindi, quando intendeva 'noi', diceva 'io e me stesso'. Inoltre, quando uno dei fratelli parlava a Katherine dell'altro, non gli era permesso usare il pronome 'lui'. Ecco quindi che chi parlava racchiudeva in sé il con­cetto dell'altro. Le sembra complicato?"

  "Assurdo," esclamò Joshua.

  "E proprio questo il punto," replicò Tony.

  "Ma è troppo. È pazzesco."

  "Certo che è pazzesco," affermò Tony. "Era il piano di Katherine, e Katherine era pazza."

  "Ma come ha fatto a inculcare quelle regole assurde sulle abitudini, sul modo di parlare, sul comportamento, sull'uso dei pronomi e chissà che cos'altro ancora?"

  "Nello stesso modo in cui abitualmente si insegna il comportamento a un bambino normale," s'intromise Hilary. "Se si comporta bene, lo premi, quando invece fa il cattivo, lo punisci."

  "Ma per inculcare un comportamento così innaturale, come quello che Katherine voleva insegnare ai gemelli, per renderli talmente docili da rinunciare alla loro personalità, la punizione doveva essere veramente mostruosa," com­mentò Joshua.

  "E noi sappiamo che si trattava di qualcosa di mo­struoso," ribattè Tony. "Abbiamo sentito tutti la cassetta del dottor Rudge sulla quale è registrata l'ultima seduta sotto ipnosi di Bruno. Se vi ricordate, Bruno diceva che per punirlo la madre lo rinchiudeva in una fossa buia nella terra. Diceva testualmente: 'Perché non mi comportavo e non pensavo come uno solo.' Sono convinto che Katherine mandasse lui e il fratello in quel posto buio, quando si ri­fiutavano di agire e pensare come una sola persona. Li lasciava rinchiusi al buio per ore e ore e là dentro c'era qual­cosa di vivo, qualcosa che strisciava addosso ai bambini. Qualsiasi cosa succedesse loro in quella stanza o in quel buco... era così terribile che per anni i due gemelli hanno continuato ad avere incubi ogni notte. Se dopo tanti anni l'
impressione è ancora così viva, direi che doveva trattarsi di una punizione estremamente severa e perfetta per un la­vaggio del cervello. Katherine ha fatto dei gemelli quello che voleva: li ha resi una persona sola." Joshua fissò il cielo sopra di loro.

  Alla fine, esclamò: "Quando tornò dal bordello di Mrs Yancy, doveva riuscire a far passare i gemelli per quell'u­nico bambino di cui aveva già parlato, confermando così la teoria della fantomatica amica. Ma avrebbe potuto limitarsi a rinchiudere uno dei gemelli, tenendolo sempre in casa, mentre faceva uscire l'altro. Sarebbe stato più semplice, più veloce e più sicuro."

  "Ma conosciamo tutti la Legge di Clemenza," commentò Hilary.

  "È vero," ammise Joshua. "La Legge di Clemenza: ben poche persone imboccano la strada più semplice, più ve­loce e più sicura."

  "Inoltre," aggiunse Hilary, "forse Katherine non se la sentiva di rinchiudere per sempre uno dei gemelli mentre l'altro poteva condurre una vita quasi normale. Dopo quello che aveva sofferto, forse c'era un limite alla tortura che poteva infliggere ai figli."

  "A me sembra che quei due poveri ragazzi abbiano pa­tito le pene dell'inferno!" esclamò Joshua. "Li ha fatti im­pazzire!"

  "Sì, ma senza volerlo," proseguì Hilary. "Non era sua in­tenzione farli impazzire. Pensava di agire solo per il loro bene, ma il suo stato mentale non le permetteva di giudi­care quale potesse essere questo bene."

  Joshua sospirò. "E una teoria pazzesca."

  "Non così pazzesca," disse Tony. "Si accorda perfetta­mente ai fatti."

  Joshua annuì. "Ne sono convinto anch'io. Perlomeno in buona parte. Vorrei solo che i cattivi di questa storia fos­sero tutti vili e spregevoli. Non mi sembra giusto provare tanta compassione per loro."

  Dopo essere atterrati a Napa, sotto un cielo sempre più plumbeo, si diressero immediatamente nell'ufficio dello sceriffo della contea e raccontarono ogni cosa a Peter Laurenski. Inizialmente, lui li fissò come se fossero impazziti, ma la sua incredulità cominciò ben presto a trasformarsi in riluttante accettazione. Era un tipo di reazione, una trasfor­mazione delle impressioni iniziali, alla quale avrebbero as­sistito centinaia di volte nei giorni seguenti.

  Laurenski telefonò al dipartimento di polizia di Los Angeles. Scoprì che l'fbi li aveva già contattati in relazione al caso di frode bancaria di San Francisco, che vedeva coin­volto un sosia di Bruno Frye. Naturalmente Laurenski vo­leva comunicare ai colleghi che l'individuo non era un semplice sosia, ma il legittimo titolare del conto, anche se un altro legittimo titolare era morto e sepolto nel Napa County Memorial Park. Informò la polizia di Los Angeles che aveva ragione di credere che i due Bruno si fossero dati il cambio nell'omicidio di molte donne e che fossero i responsabili di una serie di assassinii compiuti nella parte set­tentrionale dello stato negli ultimi cinque anni, anche se non aveva ancora in mano prove schiaccianti e non era neppure in grado di indicare con precisione in quali delitti fossero coinvolti i due fratelli. Per il momento, possedeva solo prove circostanziali: una macabra ma logica interpretazione della lettera rinvenuta nella cassetta di sicurezza alla luce delle recenti scoperte su Leo, Katherine e i gemelli; il fatto che entrambi i fratelli avessero cercato di uccidere Hilary; il fatto che la settimana precedente, quando Hilary era stata aggredita per la prima volta, uno dei gemelli aveva coperto l'altro, indicando quindi la complicità in al­meno un tentato omicidio; infine la convinzione, condivisa da Hilary, Tony e Joshua, che l'odio di Bruno per la madre fosse così forte e maniacale da non farlo esitare a trucidare ogni donna nel cui corpo Katherine poteva essersi reincar­nata.

  Mentre Hilary e Joshua bevevano una tazza di caffè, se­duti sulla panca che serviva da divano, Tony, su richiesta di Laurenski, parlò al telefono con due suoi superiori a Los Angeles. Il suo appoggio a Laurenski e l'evidenza dei fatti da lui esposti sembrarono dare risultati positivi poiché la telefonata si concluse con la promessa che anche le autorità di Los Angeles sarebbero entrate immediatamente in azione. Partendo dal presupposto che lo psicopatico avrebbe tenuto sotto controllo la casa di Hilary, la polizia di Los Angeles decise di sorvegliare ventiquattr'ore su ventiquattro la casa di Westwood.

  Dopo essersi assicurato la collaborazione della polizia di Los Angeles, lo sceriffo stese velocemente un comunicato, sottolineando i punti fondamentali del caso, da distribuire a tutte le forze dell'ordine della zona. Il comunicato era an­che una formale richiesta per ricevere informazioni su casi di omicidi non risolti, compiuti negli ultimi cinque anni, in zone poste fuori della giurisdizione di Laurenski, nei quali le vittime fossero state graziose brunette dagli occhi scuri. Si faceva riferimento soprattutto a omicidi nei quali la vit­tima fosse stata decapitata, mutilata o avesse comunque su­bito una violenza carnale.

  Osservando lo sceriffo che impartiva ordini agli impie­gati e ai poliziotti e ripensando agli avvenimenti delle ul­time ventiquattr'ore, Hilary ebbe la netta impressione che le cose stessero muovendosi troppo velocemente, come un mulinello di vento; un vento colmo di sorprese e orribili se­greti, proprio come un tornado è colmo di detriti e zolle vorticose strappate alla terra. Quel tornado la stava trasci­nando verso un precipizio invisibile ma estremamente peri­coloso. Avrebbe voluto fermare il tempo per avere qualche giorno di tranquillità e ripensare a ciò che avevano scoperto; avrebbe voluto esaminare gli ultimi, complicati intri­ghi della misteriosa vicenda Frye a mente lucida. Era sicura che quella fretta fosse assurda, persino mortale. Ma i mec­canismi della legge, ormai in moto, non potevano più essere fermati. E il tempo non poteva essere imbrigliato, come un cavallo al galoppo.

  Si augurò che davanti a lei non ci fosse il precipizio.

  Alle 17.30, dopo aver messo in moto la macchina della legge, Laurenski e Joshua cercarono di rintracciare telefoni­camente un giudice. Ne trovarono uno, Julian Harwey, che rimase affascinato dalla storia dei Frye. Harwey si rese conto della necessità di riesumare il cadavere e di sottoporlo a ul­teriori esami per poterlo identificare. Se il secondo Bruno Frye fosse stato arrestato e fosse riuscito a passare l'esame psichiatrico, cosa altamente improbabile ma non impossi­bile, a quel punto il pubblico ministero avrebbe avuto biso­gno di una prova fìsica attestante l'esistenza di due gemelli identici. Harwey firmò l'ordine di riesumazione e alle 18.30 lo sceriffo aveva già in mano il documento.

  "I becchini al cimitero non riusciranno a scoperchiare la tomba al buio," spiegò Laurenski, "ma dirò loro di iniziare alle prime luci dell'alba." Fece qualche altra telefonata, una al direttore del Napa County Memorial Park dove era sepolto Frye, un'altra al coroner della contea, che avrebbe condotto l'autopsia sulla salma, e l'ultima ad Avril Tannerton, l'impresario delle pompe funebri che avrebbe dovuto occuparsi del trasbordo del corpo dal cimitero al laborato­rio di patologia e viceversa.

  Quando Laurenski depose finalmente la cornetta, Joshua esclamò: "Immagino che voglia perquisire la casa di Frye."

  "Certo," rispose Laurenski. "Dobbiamo trovare le prove che testimonino che in quella casa non viveva un uomo solo. E se Frye ha veramente ammazzato altre donne, forse scopriremo qualcosa. Penso sia una buona idea perquisire anche la casa sulla collina."

  "Possiamo entrare nella casa nuova quando vuole," lo informò Joshua, "ma in quella vecchia non c'è luce. Do­vremo aspettare che faccia giorno."

  "Okay," approvò Laurenski. "Ma vorrei comunque dare un'occhiata questa notte stessa."

  "Adesso?" domandò Joshua, alzandosi dalla panca.

  "Nessuno di noi ha cenato," affermò Laurenski. Prima ancora di sentire l'intera storia, lo sceriffo aveva già avver­tito la moglie che sarebbe tornato a casa molto tardi. "An­diamo a mangiare un boccone al ristorante dietro l'angolo e poi possiamo fare una scappata a casa di Frye."

  Prima di uscire, Laurenski comunicò alla centralinista dove avrebbe potuto rintracciarlo e le chiese di informarlo immediatamente se fosse giunta la notizia dell'arresto del secondo Bruno Frye da parte della polizia di Los Angeles.

  "Non sarà tanto facile," disse Hilary.

  "Temo che tu abbia ragione," si intromise Tony. "Bruno ha nascosto un terribile segreto p
er quarant'anni. Può darsi che sia pazzo, ma è anche estremamente in gamba. La poli­zia di Los Angeles non riuscirà a catturarlo tanto in fretta. Dovrà giocare d'astuzia per riuscire a inchiodarlo."

  Al calare delle tenebre, Bruno aveva richiuso le persiane nell'attico.

  C'erano candele accese sui comodini. E un paio anche sul cassettone. Le fiammelle tremolanti proiettavano om­bre ballerine sulle pareti e sul soffitto.

  Bruno sapeva che avrebbe già dovuto essere fuori alla ri­cerca di Hilary-Katherine, ma non aveva la forza di alzarsi e uscire. Continuava a rimandare.

  Aveva fame. Improvvisamente si rese conto che non mangiava da ventiquattr'ore. Lo stomaco reclamava.

  Rimase seduto per un po' sul letto, accanto al cadavere che lo fissava, cercando di decidere dove andare a procu­rarsi qualcosa da mangiare. Nella dispensa aveva notato al­cune lattine apparentemente intatte, ma anche se non erano esplose, probabilmente contenevano cibo avariato. Riflette per circa un'ora su quell'annoso problema: doveva trovare qualcosa da mettere sotto i denti senza cadere nelle mani delle spie di Katherine. Ce n'erano dappertutto. Quella puttana e le sue spie. Dappertutto. Aveva la testa ancora confusa e, nonostante la fame, faceva fatica a con­centrarsi sul cibo. Alla fine, si ricordò che probabilmente c'era qualcosa in casa sua. Nel corso dell'ultima settimana, il latte era sicuramente andato a male e il pane sarebbe stato duro, ma la dispensa era piena di scatolette e il frigo­rifero stracolmo di formaggio e frutta. C'era anche del ge­lato nel freezer. A quel pensiero, sorrise come un bambino.

 

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