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Collected Works of Giovanni Boccaccio

Page 279

by Giovanni Boccaccio


  Novella quinta

  V

  LA MARCHESANA DI Monferrato con un convito di galline e con alquante leggiadre parolette reprime il folle amore del re di Francia.

  La novella da Dioneo raccontata prima con un poco di vergogna punse i cuori delle donne ascoltanti e con onesto rossore nel loro viso apparito ne diede segno: e poi quella, l’una l’altra guardando, appena del rider potendosi astenere, sogghignando ascoltarono. Ma venuta di questa la fine, poi che lui con alquante dolci parolette ebber morso, volendo mostrare che simili novelle non fossero tra donne da raccontare, la reina, verso la Fiammetta che appresso di lui sopra l’erba

  sedeva rivolta, che essa l’ordine seguitasse le comandò; la quale vezzosamente e con lieto viso incominciò:

  Sí perché mi piace, noi essere entrati a dimostrare con le novelle quanta sia la forza delle belle e pronte risposte, e sí ancora perché quanto negli uomini è gran senno il cercar d’amar sempre donna di piú alto legnaggio che egli non è, cosí nelle donne è grandissimo avvedimento il sapersi guardare dal prendersi dell’amore di maggiore uomo che ella non è, m’è caduto nell’animo, donne mie belle, di mostrarvi, nella novella che a me tocca di dire, come e con opere e con parole una gentil donna sé da questo guardasse ed altrui ne rimovesse.

  Era il marchese di Monferrato, uomo d’alto valore, gonfaloniere della Chiesa oltremare passato in un general passaggio da’ cristiani fatto con armata mano; e del suo valore ragionandosi nella corte del re Filippo il bornio, il quale a quel medesimo passaggio andar di Francia s’apparecchiava, fu per un cavalier detto, non esser sotto le stelle una simile coppia a quella del marchese e della sua donna: però che, quanto tra’ cavalieri era d’ogni vertú il marchese famoso, tanto la donna tra tutte l’altre donne del mondo era bellissima e valorosa. Le quali parole per sì fatta maniera nell’animo del re di Francia entrarono, che, senza mai averla veduta, di subito ferventemente la cominciò ad amare, e propose di non volere, al passaggio al quale andava, in mare entrare altrove che a Genova, acciò che, quivi per terra andando, onesta cagione avesse di dovere andare la marchesana a vedere, avvisandosi che, non essendovi il marchese, gli potesse venir fatto di mettere ad effetto il suo disio. E secondo il pensier fatto mandò ad esecuzione: per ciò che, mandato avanti ogni uomo, esso con poca compagnia e di gentili uomini entrò in cammino, ed avvicinandosi alle terre del marchese, un dì davanti mandò a dire alla donna che la seguente mattina l’attendesse a desinare. La donna, savia ed avveduta, lietamente rispose che questa l’era somma grazia sopra ogni altra e che egli fosse il ben venuto. Ed appresso entrò in pensiero, che questo volesse dire, che un cosí fatto re, non essendovi il marito di lei, la venisse a visitare: né la ‘ngannò in questo l’avviso, cioè che la fama della sua bellezza il vi traesse. Nondimeno, come valorosa donna dispostasi ad onorarlo, fattisi chiamar di que’ buoni uomini che rimasi v’erano, ad ogni cosa opportuna con lor consiglio fece ordine dare: ma il convito e le vivande ella sola volle ordinare. E fatte senza indugio quante galline nella contrada erano ragunare, di quelle sole varie vivande divisò a’ suoi cuochi per lo convito reale. Venne adunque il re il giorno detto, e con gran festa ed onore dalla donna fu ricevuto; il quale, oltre a quello che compreso aveva per le parole del cavaliere, riguardandola, gli parve bella e valorosa e costumata, e sommamente se ne maravigliò e commendolla forte, tanto nel suo disio piú accendendosi, quanto da piú trovava esser la donna che la sua passata stima di lei. E dopo alcun riposo preso in camere ornatissime di ciò che a quelle, per dovere un sì fatto re ricevere, s’appartiene, venuta l’ora del desinare, il re e la marchesana ad una tavola sedettero, e gli altri secondo la loro qualitá ad altre mense furono onorati. Quivi, essendo il re successivamente di molti messi servito e di vini ottimi e preziosi, ed oltre a ciò con diletto talvolta la marchesana bellissima riguardando, sommo piacere avea. Ma pur, venendo l’un messo appresso l’altro, cominciò il re alquanto a maravigliarsi conoscendo che quivi, quantunque le vivande diverse fossero, nonpertanto di niuna cosa essere altro che di galline. E come che il re conoscesse, il luogo lá dove era dovere esser tale, che copiosamente di diverse salvaggine aver vi dovesse, e l’avere davanti significata la sua venuta alla donna spazio l’avesse dato di poter far cacciare, nonpertanto, quantunque molto di ciò si maravigliasse, in altro non volle prender cagion di doverla mettere in parole se non delle sue galline; e con lieto viso rivòltosi verso lei disse: — Dama, nascono in questo paese solamente galline senza gallo alcuno? — La marchesana, che ottimamente la domanda intese, parendole che secondo il suo disidèro Domenedio l’avesse tempo mandato opportuno a poter la sua intenzion dimostrare, al re domandante, baldanzosamente verso lui rivolta, rispose: — Monsignor no, ma le femine, quantunque in vestimenti ed in onori alquanto dall’altre variino, tutte per ciò son fatte qui come altrove. — Il re, udite queste parole, raccolse bene la cagione del convito delle galline e la vertú nascosa nelle parole, ed accorsesi che invano con cosí fatta donna parole si gitterebbono, e che forza non v’avea luogo; per che cosí come disavvedutamente acceso s’era di lei, saviamente s’era da spegnere per onor di lui il male concetto fuoco. E senza piú motteggiarla, temendo delle sue risposte, fuori d’ogni speranza desinò, e finito il desinare, acciò che col presto partirsi ricoprisse la sua disonesta venuta, ringraziatala dell’onor ricevuto da lei, accomandandolo ella a Dio, a Genova se n’andò.

  Novella sesta

  [VI]

  CONFONDE UN VALENTE uomo con un bel detto la malvagia ipocresia de’ religiosi.

  Emilia, la quale appresso la Fiammetta sedea, essendo giá stato da tutte commendato il valore ed il leggiadro gastigamento della marchesana fatto al re di Francia, come alla sua reina piacque, baldanzosamente a dir cominciò:

  Né io altressí tacerò un morso dato da un valente uomo secolare ad uno avaro religioso con un motto non meno da ridere che da commendare.

  Fu adunque, o care giovani, non è ancora gran tempo, nella nostra cittá un frate minore inquisitore dell’eretica pravitá, il quale, come che molto s’ingegnasse di parer santo e tenero amatore della cristiana fede, sí come tutti fanno, era non meno buono investigatore di chi piena aveva la borsa che di chi di scemo nella fede sentisse. Per la quale sollecitudine per ventura gli venne trovato un buono uomo, assai piú ricco di denar che di senno, al quale, non giá per difetto di fede ma semplicemente parlando, forse da vino o da soperchia letizia riscaldato, era venuto detto un dì ad una sua brigata, sé avere un vino sí buono, che ne berrebbe Cristo. Il che essendo allo ‘nquisitor rapportato ed egli sentendo che li suoi poderi eran grandi e ben tirata la borsa, cum gladiis et fustibus impetuosissimamente corse a formargli un processo gravissimo addosso, avvisando, non di ciò alleviamento di miscredenza nello ‘nquisito, ma empimento di fiorini nella sua mano ne dovesse procedere, come fece. E fattolo richiedere, lui domandò se vero fosse ciò che contro di lui era stato detto. Il buono uomo rispose del sí, e dissegli il modo. A che lo ‘nquisitore santissimo e divoto di san Giovanni Barbadoro disse: — Adunque hai tu fatto Cristo bevitore e vago de’ vini solenni, come se egli fosse Cinciglione o alcuno altro di voi bevitori ebriachi e tavernieri: ed ora, umilmente parlando, vuogli mostrare questa cosa molto esser leggera? Ella non è come ella ti pare: tu n’hai meritato il fuoco, quando noi vogliamo come noi dobbiamo verso te operare. — E con queste e con altre parole assai, col viso dell’arme, quasi costui fosse stato epicuro negante l’eternitá dell’anime, gli parlava; ed in brieve tanto lo spaurí, che il buono uomo per certi mezzani gli fece con una buona quantitá della grascia di san Giovanni Boccadoro ugner le mani, la quale molto giova alle ‘nfermitá delle pistilenziose avarizie de’ cherici, e spezialmente de’ frati minori che i denari non osan toccare, acciò che egli dovesse verso lui misericordiosamente operare. La quale unzione, sí come molto virtuosa, avvegna che Galieno non ne parli in alcuna parte delle sue medicine, sí e tanto adoperò, che il fuoco minacciatogli di grazia si permutò in una croce: e quasi al passaggio d’oltremare andar dovesse, per far piú bella bandiera, gialla gliele pose in sul nero. Ed oltre a ques
to, giá ricevuti i denari, piú giorni appresso di sé il sostenne, per penitenza dandogli che egli ogni mattina dovesse udire una messa in Santa Croce ed all’ora del mangiare davanti a lui presentarsi, e poi il rimanente del giorno quello che piú gli piacesse potesse fare. Il che costui diligentemente faccendo, avvenne una mattina tra l’altre che egli udí alla messa uno evangelio, nel quale queste parole si cantavano: «Voi riceverete per ognun cento, e possederete la vita eterna», le quali esso nella memoria fermamente ritenne; e secondo il comandamento fattogli, ad ora di mangiare davanti allo ‘nquisitor venendo, il trovò desinare. Il quale lo ‘nquisitor domandò se egli avesse la messa udita quella mattina. Al quale esso prestamente rispose: — Messer sí. — A cui lo ‘nquisitor disse: — Udistú, in quella, cosa niuna della quale tu dubiti o vogline domandare? — Certo — rispose il buono uomo — di niuna cosa che io udissi dubito, anzi tutte per fermo le credo vere; udinne io bene alcuna che m’ha fatto e fa avere di voi e degli altri vostri frati grandissima compassione, pensando al malvagio stato che voi di lá nell’altra vita dovrete avere. — Disse allora lo ‘nquisitore: — E quale fu quella parola che t’ha mosso ad aver questa compassion di noi? — Il buono uomo rispose: — Messere, ella fu quella parola dell’evangelio la qual dice: Voi riceverete per ognun cento». — Lo ‘nquisitore disse: — Questo è vero; ma perché t’ha per ciò questa parola commosso? — Messere, — rispose il buono uomo — io vel dirò. Poi che io usai qui, ho io ognidí veduto dar qui di fuori a molta povera gente quando una e quando due grandissime caldaie di broda, la quale a’ frati di questo convento ed a voi si toglie, sí come soperchia, davanti; per che, se per ognuna cento ve ne fieno rendute di lá, voi n’avrete tanta, che voi dentro tutti vi dovrete affogare. — Come che gli altri che alla tavola dello ‘nquisitore erano tutti ridessono, lo ‘nquisitore sentendo trafiggere la lor brodaiuola ipocresia tutto si turbò, e se non fosse che biasimo portava di quello che fatto avea, uno altro processo gli avrebbe addosso fatto, per ciò che con ridevol motto lui e gli altri poltroni aveva morsi: e per bizzarria gli comandò che quello che piú gli piacesse facesse senza piú davanti venirgli.

  Novella settima

  VII

  BERGAMINO CON UNA novella di Primasso e dell’abate di Cligni onestamente morde un’avarizia nuova venuta in messer Cane della Scala.

  Mosse la piacevolezza d’Emilia e la sua novella la reina e ciascuno altro a ridere ed a commendare il nuovo avviso del crociato; ma poi che le risa rimase furono e racquetato ciascuno, Filostrato, al qual toccava il novellare, in cotal guisa cominciò a parlare:

  Bella cosa è, valorose donne, il fedire un segno che mai non si muti: ma quella è quasi maravigliosa, quando alcuna cosa non usata apparisce di subito, se subitamente da uno arcere è fedita. La viziosa e lorda vita de’ cherici, in molte cose quasi di cattivitá fermo segno, senza troppa difficultá dá di sé da parlare, da mordere e da riprendere a ciascuno che ciò disidera di fare: e per ciò, come che ben facesse il valente uomo che lo ‘nquisitore dell’ipocrita caritá de’ frati, che quello danno a’ poveri che converrebbe loro dare al porco o gittar via, trafisse, assai estimo piú da lodare colui del quale, tirandomi a ciò la precedente novella, parlar debbo, il quale messer Cane della Scala, magnifico signore, d’una subita e disusata avarizia in lui apparita morse con una leggiadra novella, in altrui figurando quello che di sé e di lui intendeva di dire; la quale è questa.

  Sí come chiarissima fama quasi per tutto il mondo suona, messer Cane della Scala, al quale in assai cose fu favorevole la fortuna, fu un de’ piú notabili e de’ piú magnificili signori che dallo ‘mperadore Federigo secondo in qua si sapesse in Italia. Il quale, avendo disposto di fare una notabile e maravigliosa festa in Verona, ed a quella molte genti e di varie parti fosser venute, e massimamente uomini di corte d’ogni maniera, subito, qual che la cagion fosse, da ciò si ritrasse, ed in parte provvedette coloro che venuti v’erano e licenziolli. Solo uno chiamato Bergamino, oltre al credere di chi non l’udí presto parlatore ed ornato, senza essere d’alcuna cosa provveduto o licenza datagli, si rimase, sperando che non senza sua futura utilitá ciò dovesse essere stato fatto. Ma nel pensiero di messer Cane era caduto, ogni cosa che gli si donasse vie peggio esser perduta che se nel fuoco fosse stata gittata: né di ciò gli dicea o facea dire alcuna cosa. Bergamino dopo alquanti dí, non veggendosi né chiamare né richiedere a cosa che a suo mestier pertenesse, ed oltre a ciò, consumarsi nell’albergo co’ suoi cavalli e co’ suoi fanti, incominciò a prender malinconia: ma pure aspettava, non parendogli ben far di partirsi. Ed avendo seco portate tre belle e ricche robe, che donate gli erano state da altri signori, per comparire orrevole alla festa, volendo il suo oste esser pagato, primieramente gli diede l’una, ed appresso, soprastando ancora molto piú, convenne, se piú volle col suo oste tornare, gli desse la seconda; e cominciò sopra la terza a mangiare, disposto di tanto stare a vedere quanto quella durasse, e poi partirsi. Ora, mentre che egli sopra la terza roba mangiava, avvenne che egli si trovò un giorno, desinando messer Cane, davanti da lui assai nella vista malinconoso; il quale messer Can veggendo, piú per istraziarlo che per diletto pigliare d’alcun suo detto, disse: — Bergamino, che hai tu? Tu stai cosí malinconoso! Dinne alcuna cosa. — Bergamino allora, senza punto pensare, quasi molto tempo pensato avesse, subitamente in acconcio de’ fatti suoi disse questa novella: — Signor mio, voi dovete sapere che Primasso fu un gran valente uomo in gramatica, e fu oltre ad ogni altro grande e presto versificatore, le quali cose il renderono tanto ragguardevole e sí famoso, che, ancora che per vista in ogni parte conosciuto non fosse, per nome e per fama quasi niuno era che non sapesse chi fosse Primasso. Ora, avvenne che, trovandosi egli una volta a Parigi in povero stato, sí come egli il piú del tempo dimorava, per la vertú che poco era gradita da coloro che possono assai, udí ragionare d’uno abate di Cligní, il quale si crede che sia il piú ricco prelato di sue entrate che abbia la Chiesa di Dio, dal papa in fuori; e di lui udí dire maravigliose e magnifiche cose in tener sempre corte e non esser mai, ad alcuno che andasse lá dove egli fosse, negato né mangiar né bere, solo che, quando l’abate mangiasse, il domandasse. La qual cosa Primasso udendo, sí come uomo che si dilettava di vedere i valenti uomini e signori, diliberò di volere andare a vedere la magnificenza di questo abate e domandò quanto egli allora dimorasse presso a Parigi. A che gli fu risposto che forse a sei miglia ad un suo luogo; al quale Primasso pensò di potervi essere, movendosi la mattina a buona ora, ad ora di mangiare. Fattasi adunque la via insegnare, non trovando alcun che v’andasse, temette non per isciagura gli venisse smarrita, e quinci potere andare in parte dove cosí tosto non troveria da mangiare; per che, se ciò avvenisse, acciò che di mangiare non patisse disagio, seco pensò di portare tre pani, avvisando che dell’acqua, come che ella gli piacesse poco, troverebbe in ogni parte da bere. E quegli messisi in seno, prese il suo cammino e vennegli sí ben fatto, che avanti ora di mangiare pervenne lá dove l’abate era. Ed entrato dentro, andò riguardando per tutto, e veduta la gran moltitudine delle tavole messe ed il grande apparecchio della cucina e l’altre cose per lo desinare apprestate, tra se medesimo disse: — Veramente è questi cosí magnifico come uom dice. — E stando alquanto intorno a queste cose attento, il siniscalco dell’abate, per ciò che ora era di mangiare, comandò che l’acqua si desse alle mani, e data l’acqua, mise ogni uomo a tavola. E per ventura avvenne che Primasso fu messo a sedere appunto di rimpetto all’uscio della camera donde l’abate dovea uscire per venire nella sala a mangiare. Era in quella corte questa usanza, che in su le tavole vino né pane né altre cose da mangiare o da ber si ponea giá mai, se prima l’abate non veniva a sedere alla tavola. Avendo adunque il siniscalco le tavole messe, fece dire all’abate che, qualora gli piacesse, il mangiare era presto. L’abate fece aprir la camera per venir nella sala, e venendo si guardò innanzi, e per ventura il primo uomo che agli occhi gli corse fu Primasso, il quale assai male era in arnese e cui egli per veduta non conoscea; e come veduto l’ebbe, incontanente gli corse nell’animo un pensiero cattivo e mai piú non istato
vi, e disse seco: — Vedi a cui io do mangiare il mio! — E tornandosi addietro, comandò che la camera fosse serrata e domandò coloro che appresso lui erano, se alcuno conoscesse quel ribaldo che di rimpetto all’uscio della sua camera sedeva alle tavole. Ciascuno rispose del no. Primasso, il quale avea talento di mangiare, come colui che camminato avea ed uso non era di digiunare, avendo alquanto aspettato e veggendo che l’abate non veniva, si trasse di seno l’un de’ tre pani li quali portati aveva, e cominciò a mangiare. L’abate, poi che alquanto fu stato, comandò ad un de’ suoi famigliari che riguardasse se partito si fosse questo Primasso. Il famigliare rispose: — Messer no, anzi mangia pane il quale mostra che egli seco recasse. — Disse allora l’abate: — Or mangi del suo, se egli n’ha, ché del nostro non mangerá egli oggi. — Avrebbe voluto l’abate che Primasso da se stesso si fosse partito, per ciò che accommiatarlo non gli pareva far bene. Primasso, avendo l’un pane mangiato e l’abate non venendo, cominciò a mangiare il secondo, il che similmente all’abate fu detto, che fatto avea guardare se partito si fosse. Ultimamente, non venendo l’abate, Primasso, mangiato il secondo, cominciò a mangiare il terzo, il che ancora fu all’abate detto. Il quale seco stesso cominciò a pensare ed a dire: — Dch! questa che novitá è oggi, che nell’anima m’è venuta? che avarizia? chente sdegno? e per cui? Io ho dato mangiare il mio, giá è molti anni, a chiunque mangiar n’ha voluto, senza guardare se gentile uomo è o villano, o povero o ricco, o mercatante o barattiere stato sia, e ad infiniti ribaldi con l’occhio me l’ho veduto straziare, né mai nell’animo m’entrò questo pensiero che per costui mi c’è entrato; fermamente avarizia non mi dèe avere assalito per uomo di piccolo affare: qualche gran fatto dèe esser costui che ribaldo mi pare, poscia che cosí mi s’è rintuzzato l’animo d’onorarlo. — E cosí detto, volle sapere chi fosse: e trovato che era Primasso, quivi venuto a vedere della sua magnificenza quello che n’aveva udito, il quale avendo l’abate per fama molto tempo davanti per valente uom conosciuto, si vergognò, e vago di far l’ammenda, in molte maniere s’ingegnò d’onorarlo. Ed appresso mangiare, secondo che alla sufficienza di Primasso si conveniva, il fe’ nobilmente vestire, e donatigli denari ed un pallafreno, nel suo arbitrio rimise l’andare e lo stare; di che Primasso contento, rendutegli quelle grazie le quali potè maggiori, a Parigi, donde a piè partito s’era, ritornò a cavallo. — Messer Cane, il quale intendente signore era, senza altra dimostrazione alcuna ottimamente intese ciò che dir volea Bergamino, e sorridendo gli disse: — Bergamino, assai acconciamente hai mostrati i danni tuoi, la tua vertú e la mia avarizia e quel che da me disideri: e veramente mai piú che ora per te da avarizia assalito non fui, ma io la caccerò con quel bastone che tu medesimo hai divisato. — E fatto pagare l’oste di Bergamino e lui nobilissimamente d’una sua roba vestito, datigli denari ed un pallafreno, nel suo piacere per quella volta rimise l’andare e lo stare.

 

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