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Collected Works of Giovanni Boccaccio

Page 280

by Giovanni Boccaccio


  Novella ottava

  VIII

  GUIGLIELMO BORSIERE CON leggiadre parole trafigge l’avarizia di messere Ermino de’ Grimaldi.

  Sedeva appresso Filostrato Lauretta, la quale, poscia che udito ebbe lodare la ‘ndustria di Bergamino e sentendo a lei convenir dire alcuna cosa, senza alcuno comandamento aspettare, piacevolmente cosí cominciò a parlare:

  La precedente novella, care compagne, m’induce a voler dire come un valente uomo di corte similmente, e non senza frutto, pugnesse d’un ricchissimo mercatante la cupidigia; la quale, perché l’effetto della passata somigli, non vi dovrá per ciò esser men cara, pensando che bene n’addivenisse alla fine.

  Fu adunque in Genova, buon tempo è passato, un gentile uomo chiamato messere Ermino de’ Grimaldi, il quale, per quello che da tutti era creduto, di grandissime possessioni e di denari di gran lunga trapassava la ricchezza d’ogni altro ricchissimo cittadino che allora si sapesse in Italia; e sí come egli di ricchezza ogni altro avanzava che italico fosse, cosí d’avarizia e di miseria ogni altro misero ed avaro che al mondo fosse soperchiava oltre misura: per ciò che, non solamente in onorare altrui teneva la borsa stretta, ma nelle cose opportune alla sua propria persona, contra il general costume de’ genovesi, che usi sono di nobilemente vestire, sosteneva egli, per non ispendere, difetti grandissimi, e similmente nel mangiare e nel bere. Per la qual cosa, e meritamente, gli era de’ Grimaldi caduto il soprannome, e solamente messere Ermino Avarizia era da tutti chiamato. Avvenne che, in questi tempi che costui non ispendendo il suo multiplicava, arrivò a Genova un valente uomo di corte e costumato e ben parlante, il qual fu chiamato Guiglielmo Borsiere, non miga simile a quegli li quali sono oggi, li quali, non senza gran vergogna de’ corrotti e vituperevoli costumi di coloro li quali al presente vogliono essere gentili uomini e signor chiamati e reputati, son piú tosto da dire asini nella bruttura di tutta la cattivitá de’ vilissimi uomini allevati che nelle corti. E lá dove a que’ tempi soleva essere il lor mestiere e consumarsi la lor fatica in trattar paci dove guerre o sdegni tra gentili uomini fosser nati o trattar matrimoni, parentadi ed amistá, e con belli motti e leggiadri ricreare gli animi degli affaticati e sollazzar le corti e con agre riprensioni, sí come padri, mordere i difetti de’ cattivi, e questo con premi assai leggeri; oggidí in rapportar male dall’uno all’altro, in seminare zizzania, in dir cattivitá e tristizie, e che è peggio, in farle nella presenza degli uomini, in rimproverare i mali, le vergogne e le tristezze vere e non vere l’uno all’altro e con false lusinghe gli uomini gentili alle cose vili e scellerate ritrarre s’ingegnano il lor tempo di consumare. E colui è piú caro avuto e piú da’ miseri e scostumati signori onorato e con premi grandissimi esaltato, che piú abominevoli parole dice o fa atti: gran vergogna e biasimevole del mondo presente, ed argomento assai evidente che le vertú, di qua giú dipartitesi, hanno nella feccia de’ vizi i miseri viventi abbandonati. Ma tornando a ciò che io cominciato avea, da che giusto sdegno un poco m’ha trasviata piú che io non credetti, dico che il giá detto Guiglielmo da tutti i gentili uomini di Genova fu onorato e volentier veduto; il quale, essendo dimorato alquanti giorni nella cittá ed avendo udite molte cose della miseria e dell’avarizia di messere Ermino, il volle vedere. Messere Ermino aveva giá sentito come questo Guiglielmo Borsiere era valente uomo, e pure avendo in sé, quantunque avaro fosse, alcuna favilluzza di gentilezza, con parole assai amichevoli e con lieto viso il ricevette e con lui entrò in molti e vari ragionamenti, e ragionando il menò seco, insieme con altri genovesi che con lui erano, in una sua casa nuova, la quale fatta aveva fare assai bella; e dopo avergliele tutta mostrata, disse: — Deh! messer Guiglielmo, voi che avete e vedute ed udite molte cose, saprestemi voi insegnare cosa alcuna che mai piú non fosse stata veduta, la quale io potessi far dipignere nella sala di questa mia casa? — A cui Guiglielmo, udendo il suo mal conveniente parlare, rispose: — Messere, cosa che non fosse mai stata veduta non vi crederei io sapere insegnare, se ciò non fosser giá starnuti o cose a quegli simiglianti: ma se vi piace, io ve ne ‘nsegnerò bene una che voi non credo che vedeste giá mai. — Messere Ermino disse: — Deh! io ve ne priego, ditemi quale è dessa — non aspettando, lui quello dover rispondere che rispose. A cui Guiglielmo allora prestamente disse: — Fateci dipignere la cortesia. — Come messere Ermino udí questa parola, cosí subitamente il prese una vergogna tale, che ella ebbe forza di fargli mutare animo quasi tutto in contrario a quello che infino a quella ora aveva avuto, e disse: — Messer Guiglielmo, io la ci farò dipignere in maniera, che mai né voi né altri con ragione mi potrá piú dire che io non l’abbia veduta e conosciuta. — E da questo di innanzi, di tanta vertú fu la parola da Guiglielmo detta, fu il piú liberale ed il piú grazioso gentile uomo e quello che piú ed i forestieri ed i cittadini onorò che altro che in Genova fosse a’ tempi suoi.

  Novella nona

  IX

  IL RE DI Cipri, da una donna di Guascogna trafitto, di cattivo valoroso diviene.

  Ad Elissa restava l’ultimo comandamento della reina; la quale, senza aspettarlo, tutta festevole cominciò:

  Giovani donne, spesse volte giá addivenne che quello che varie riprensioni e molte pene date ad alcuno non hanno potuto in lui adoperare, una parola molte volte per accidente, non che ex proposito, detta l’ha operato. Il che assai bene appare nella novella raccontata dalla Lauretta, ed io ancora con un’altra assai brieve ve l’intendo dimostrare, perché, con ciò sia cosa che le buone sempre possan giovare, con attento animo son da ricogliere, chi che d’esse sia il dicitore.

  Dico adunque che ne’ tempi del primo re di Cipri, dopo il conquisto fatto della Terrasanta da Gottifrè di Buglione, avvenne che una gentil donna di Guascogna in pellegrinaggio andò al Sepolcro, donde tornando, in Cipri arrivata, da alcuni scellerati uomini villanamente fu oltraggiata; di che ella senza alcuna consolazion dolendosi, pensò d’andarsene a richiamare al re: ma detto le fu per alcuno che la fatica si perderebbe, per ciò che egli era di sí rimessa vita e da sí poco bene, che, non che egli l’altrui onte con giustizia vendicasse, anzi infinite con vituperevole viltá a lui fattene sosteneva, intanto che chiunque aveva cruccio alcuno, quello col fargli alcuna onta o vergogna sfogava. La qual cosa udendo la donna, disperata della vendetta, ad alcuna consolazione della sua noia propose di voler mordere la miseria del detto re; ed andatasene piagnendo davanti a lui, disse: — Signor mio, io non vengo nella tua presenza per vendetta che io attenda della ‘ngiuria che m’è stata fatta: ma in sodisfacimento di quella ti priego che tu m’insegni come tu sofferi quelle le quali io intendo che ti son fatte, acciò che, da te apparando, io possa pazientemente la mia comportare, la quale, sallo Iddio, se io farlo potessi, volentieri la ti donerei, poi cosí buono portatore ne se’. — Il re, infino allora stato tardo e pigro, quasi dal sonno si risvegliasse, cominciando dalla ‘ngiuria fatta a questa donna, la quale agramente vendicò, rigidissimo persecutore divenne di ciascuno che contro all’onore della sua corona alcuna cosa commettesse da indi innanzi.

  Novella decima

  X

  MAESTRO ALBERTO DA Bologna onestamente fa vergognare una donna, la quale lui d’esser di lei innamorato voleva far vergognare.

  Restava, tacendo giá Elissa, l’ultima fatica del novellare alla reina, la quale donnescamente cominciando a parlar disse:

  Valorose giovani, come ne’ lucidi sereni sono le stelle ornamento del cielo e nella primavera i fiori de’ verdi prati, cosí de’ laudevoli costumi e de’ ragionamenti piacevoli sono i leggiadri motti; li quali, per ciò che brievi sono, molto meglio alle donne stanno che agli uomini, in quanto piú alle donne che agli uomini il molto parlare e lungo, quando senza esso si possa far, si disdice, come che oggi poche o niuna donna rimasa ci sia la quale o ne ‘ntenda alcun leggiadro o a quello, se pur lo ‘ntendesse, sappia rispondere: general vergogna e di noi e di tutte quelle che vivono. Per ciò che quella vertú che giá fu nell’anime delle passate hanno le moderne rivolta in ornamenti del corpo, e colei la quale si vede indosso li panni piú screziati e piú vergati e con piú fregi si cred
e dovere essere da molto piú tenuta e piú che l’altre onorata, non pensando che, se fosse chi addosso gliele ponesse, uno asino ne porterebbe troppo piú che alcuna di loro: né per ciò piú da onorar sarebbe che uno asino. Io mi vergogno di dirlo, per ciò che contro all’altre non posso dire che io contro a me non dica: queste cosí fregiate, cosí dipinte, cosí screziate o come statue di marmo mutole ed insensibili stanno o si rispondono, se sono addomandate, che molto sarebbe meglio l’aver taciuto; e fannosi a credere che da puritá d’animo proceda il non saper tra le donne e co’ valenti uomini favellare, ed alla lor milensaggine hanno posto nome onestá, quasi niuna donna onesta sia se non colei che con la fante o con la lavandaia o con la sua fornaia favella, il che se la natura avesse voluto, come elle si fanno a credere, per altro modo loro avrebbe limitato il cinguettare. È il vero che, cosí come nell’altre cose, è in questa da riguardare ed il tempo ed il luogo e con cui si favella, per ciò che talvolta avviene che, credendo alcuna donna o uomo con alcuna paroletta leggiadra fare altrui arrossare, non avendo ben le sue forze con quelle di quel cotal misurate, quello rossore che in altrui ha creduto gittare sopra sé l’ha sentito tornare. Per che, acciò che voi vi sappiate guardare, ed oltre a questo acciò che per voi non si possa quel proverbio intendere che comunemente si dice per tutto, cioè che le femine in ogni cosa sempre pigliano il peggio, questa ultima novella di quelle d’oggi, la quale a me tocca di dover dire, voglio ve ne renda ammaestrate, acciò che, come per nobiltá d’animo dall’altre divise siete, cosí ancora per eccellenza di costumi separate dall’altre vi dimostriate.

  Egli non sono ancora molti anni passati, che in Bologna fu un grandissimo medico e di chiara fama quasi a tutto il mondo, e forse ancora vive, il cui nome fu maestro Alberto; il quale essendo giá vecchio di presso a settanta anni, tanta fu la nobiltá del suo spirito, che, essendo giá del corpo quasi ogni natural caldo partito, in sé non schifò di ricevere l’amorose fiamme, avendo veduta ad una festa una bellissima donna vedova chiamata, secondo che alcuni dicono, madonna Malgherida de’ Ghisolieri: e piaciutagli sommamente, non altramenti che un giovanetto quelle nel maturo petto ricevette, intanto che a lui non pareva quella notte ben riposare che il dí precedente veduto non avesse il vago e dilicato viso della bella donna. E per questo incominciò a continuare, quando a piè e quando a cavallo, secondo che piú in destro gli venia, la via davanti alla casa di questa donna. Per la qual cosa ed ella e molte altre donne s’accorsero della cagione del suo passare e piú volte insieme ne motteggiarono, di vedere uno uomo cosí antico, d’anni e di senno, innamorato, quasi credessero questa passione piacevolissima d’amore solamente nelle sciocche anime de’ giovani e non in altra parte capere e dimorare. Per che, continuando il passar del maestro Alberto, avvenne, un giorno di festa, che, essendo questa donna con molte altre donne a sedere davanti alla sua porta ed avendo di lontano veduto il maestro Alberto verso loro venire, con lei insieme tutte si proposero di riceverlo e di fargli onore, ed appresso di motteggiarlo di questo suo innamoramento; e cosí fecero. Per ciò che, levatesi tutte e lui invitato, in una fresca corte il menarono, dove di finissimi vini e confetti fecer venire, ed alla fine, con assai belle e leggiadre parole, come questo potesse essere, che egli di questa bella donna fosse innamorato, il domandarono, sentendo esso, lei da molti belli, gentili e leggiadri giovani essere amata. Il maestro, sentendosi assai cortesemente pugnere, fece lieto viso e rispose: — Madonna, che io ami, questo non dèe esser maraviglia ad alcun savio, e spezialmente voi, per ciò che voi il valete. E come che agli antichi uomini sieno naturalmente tolte le forze le quali agli amorosi esercizi si richeggiono, non è per ciò lor tolto la buona volontá né lo ‘ntendere quello che sia da essere amato, ma tanto piú dalla natura conosciuto, quanto essi hanno piú di conoscimento che i giovani. La speranza la qual mi muove che io vecchio ami voi amata da molti giovani è questa: io sono stato piú volte giá lá dove io ho vedute merendarsi le donne e mangiare lupini e porri; e come che nel porro niuna cosa sia buona, pur men reo e piú piacevole alla bocca è il capo di quello, il quale voi generalmente, da torto appetito tirate, il capo vi tenete in mano e manicate le frondi, le quali non solamente non sono da cosa alcuna, ma son di malvagio sapore. E che so io, madonna, se nell’elegger degli amanti voi vi faceste il simigliante? E se voi il faceste, io sarei colui che eletto sarei da voi, e gli altri cacciati via. — La gentil donna, insieme con l’altre alquanto vergognandosi, disse: — Maestro, assai bene e cortesemente gastigate n’avete della nostra presuntuosa impresa; tuttavia il vostro amor m’è caro, sí come di savio e valente uomo esser dèe, e per ciò, salva la mia onestá, come a vostra cosa ogni vostro piacere m’imponete sicuramente. — Il maestro, levatosi co’ suoi compagni, ringraziò la donna, e ridendo e con festa da lei preso commiato, si partí. Cosí la donna, non guardando cui motteggiasse, credendo vincer fu vinta; di che voi, se savie sarete, ottimamente vi guarderete.

 

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