Collected Works of Giovanni Boccaccio
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Conclusione
Questa novella die’ tanto che ridere a tutta la compagnia, che niuna ve n’era a cui non dolessero le mascelle: e di pari consentimento tutte le donne dissero che Dioneo diceva vero e che Bernabò era stato una bestia. Ma poi che la novella fu finita e le risa ristate, avendo la reina riguardato che l’ora era omai tarda e che tutti avean novellato, e la fine della sua signoria era venuta, secondo il cominciato ordine, trattasi la ghirlanda di capo, sopra la testa la pose di Neifile, con lieto viso dicendo: — Omai, cara compagna, di questo piccol popolo il governo sia tuo — ed a seder si ripose. Neifile del ricevuto onore un poco arrossò, e tal nel viso divenne qual fresca rosa d’aprile o di maggio in su lo schiarir del giorno si mostra, con gli occhi, vaghi e scintillanti non altramenti che matutina stella, un poco bassi. Ma poi che l’onesto romor de’ circostanti, nel quale il favor loro verso la reina lietamente mostravano, si fu riposato ed ella ebbe ripreso l’animo, alquanto piú alta che usata non era sedendo, disse:
Poi che cosí è che io vostra reina sono, non dilungandomi dalla maniera tenuta per quelle che davanti a me sono state, il cui reggimento voi ubidendo commendato avete, il parer mio in poche parole vi farò manifesto; il quale se dal vostro consiglio sará commendato, quel seguiremo. Come voi sapete, domane è venerdí ed il seguente di sabato, giorni, per le vivande le quali s’usano in quegli, alquanto tediosi alle piú genti: senza che, il venerdí, avendo riguardo che in esso Colui che per la nostra vita morí, sostenne passione, è degno di reverenza; per che giusta cosa e molto onesta reputerei che, ad onor di Dio, piú tosto ad orazioni che a novelle vacassimo. Ed il sabato appresso usanza è delle donne di lavarsi la testa e di tôr via ogni polvere ed ogni sucidume che per la fatica di tutta la passata settimana sopravvenuta fosse: e soglion similmente assai, a reverenza della Vergine madre del Figliuolo di Dio, digiunare, e da indi in avanti, per onor della sopravvegnente domenica, da ciascuna opera riposarsi; per che, non potendo cosí appieno in quel di l’ordine da noi preso nel vivere seguitare, similmente estimo sia ben fatto, quel di delle novelle ci posiamo. Appresso, per ciò che noi qui quattro di dimorate saremo, se noi vogliam tôr via che gente nuova non ci sopravvenga, reputo opportuno di mutarci di qui ed andarne altrove: ed il dove io ho giá pensato e provveduto. Quivi quando noi saremo domenica appresso dormire adunati, voglio, avendo noi oggi avuto assai largo spazio da discorrere ragionando, sì perché piú tempo da pensare avrete e sí perché sará ancora piú bello che un poco si ristringa del novellare la licenza, che sopra un de’ molti fatti della fortuna si dica: ed ho pensato che questo sará di chi alcuna cosa molto disiderata con industria acquistasse o la perduta recuperasse. Sopra che ciascun pensi di dire alcuna cosa che alla brigata esser possa utile o almeno dilettevole, salvo sempre il privilegio di Dioneo. — Ciascuno commendò il parlare ed il diviso della reina: e cosí statuiron che fosse. La quale, appresso questo, fattosi chiamare il suo siniscalco, dove metter dovesse la sera le tavole, e quello appresso che far dovesse in tutto il tempo della sua signoria pienamente gli divisò; e cosí fatto, in piè dirizzata con la sua brigata, a far quello che piú piacesse a ciascuno gli licenziò. Presero adunque le donne e gli uomini inverso un giardinetto la via, e quivi poi che alquanto diportati si furono, l’ora della cena venuta, con festa e con piacer cenarono; e da quella levati, come alla reina piacque, menando Emilia la carola, la seguente canzone da Pampinea, rispondendo l’altre, fu cantata:
Qual donna canterá, s’io non canto io,Ææche son contenta d’ogni mio disio?Ææ Vien’ dunque, Amor, cagion d’ogni mio bene,Ææd’ogni speranza e d’ogni lieto effetto;Ææcantiamo insieme un poco,Æænon de’ sospir né delle amare peneÆæch’or piú dolce mi fanno il tuo diletto,Ææma sol del chiaro foco
nel quale ardendo in festa vivo e ‘n gioco,Ææte adorando come un mio iddio.Ææ Tu mi ponesti innanzi agli occhi, Amore,Ææil primo di ch’io nel tuo foco entrai,Ææun giovanetto tale,Ææche di biltá, d’ardir né di valoreÆænon se ne troverebbe un maggior mai,Ææné pure a lui equale;Æædi lui m’accesi tanto, che agualeÆælieta ne canto teco, signor mio.Ææ E quel che ‘n questo m’è sommo piacereÆæè ch’io gli piaccio quanto egli a me piace,ÆæAmor, la tua merzede;Ææper che in questo mondo il mio volereÆæposseggo, e spero nell’altro aver pace,Ææper quella intera fedeÆæche io gli porto: Iddio, che questo vede,Æædel regno suo ancor ne sará pio.
Appresso questa, piú altre se ne cantarono, e piú danze si fecero e sonarono diversi suoni: ma estimando la reina tempo essere di doversi andare a posare, co’ torchi avanti ciascuno alla sua camera se n’andò, e li due dí seguenti a quelle cose vacando che prima la reina avea ragionate, con disidèro aspettarono la domenica.
Terza giornata
Indice
INTRODUZIONE
Novella PRIMA
Masetto da Lamporecchio si fa mutolo e diviene ortolano di uno monistero di donne, le quali tutte concorrono a giacersi con lui.
Novella seconda
Un pallafrenier giace con la moglie d’Agilulf re, di che Agilulf tacitamente s’accorge; truovalo e tondelo; il tonduto tutti gli altri tonde, e così campa della mala ventura.
Novella terza
Sotto spezie di confessione e di purissima conscienza una donna innamorata d’un giovane induce un solenne frate, senza avvedersene egli, a dar modo che ‘l piacer di lei avesse intero effetto.
Novella quarta
Don Felice insegna a frate Puccio come egli diverrà beato faccendo una sua penitenzia; la quale frate Puccio fa, e don Felice in questo mezzo con la moglie del frate si dà buon tempo.
Novella quinta
Il Zima dona a messer Francesco Vergellesi un suo pallafreno, e per quello con licenzia di lui parla alla sua donna ed, ella tacendo, egli in persona di lei si risponde, e secondo la sua risposta poi l’effetto segue.
Novella sesta
Ricciardo Minutolo ama la moglie di Filippello Sighinolfo, la quale sentendo gelosa, col mostrare Filippello il dì seguente con la moglie di lui dovere essere ad un bagno, fa che ella vi va, e credendosi col marito essere stata, si truova che con Ricciardo è dimorata.
Novella settima
Tedaldo, turbato con una sua donna, si parte di Firenze; tornavi in forma di peregrino dopo alcun tempo; parla con la donna e falla del suo error conoscente, e libera il ma ito di lei da morte, che lui gli era provato che aveva ucciso, e co’ fratelli il pacefica; e poi saviamente colla sua donna si gode.
Novella ottava
Ferondo, mangiata certa polvere, è sotterrato per morto; e dall’abate, che la moglie di lui si gode, tratto della sepoltura, è messo in prigione e fattogli credere che egli è in purgatoro; e poi risuscitato, per suo nutrica un figliuolo dello abate nella moglie di lui generato.
Novella nona
Giletta di Nerbona guerisce il re di Francia d’una fistola; domanda per marito Beltramo di Rossiglione, il quale, contra sua voglia sposatala, a Firenze se ne va per isdegno, dove vagheggiando una giovane, in persona di lei Giletta giacque con lui ed ebbene due figliuoli; per che egli poi, avutola cara, per moglie la tenne.
Novella decima
Alibech diviene romita, a cui Rustico monaco insegna rimettere il diavolo in inferno; poi, quindi tolta, diventa moglie di Neerbale.
Conclusione
Introduzione
L’AURORA GIÁ DI vermiglia cominciava, appressandosi il sole, a divenir rancia, quando, la domenica, la reina levata e fatta tutta la sua compagnia levare, ed avendo giá il siniscalco gran pezza davanti mandato al luogo dove andar doveano assai delle cose opportune e chi quivi preparasse quello che bisognava, veggendo giá la reina in cammino, prestamente fatta ogni altra cosa caricare, quasi quindi il campo levato, con la salmeria n’andò e con la famiglia rimasa appresso delle donne e de’ signori. La reina adunque con lento passo, accompagnata e seguita dalle sue donne e dai tre giovani, alla guida del canto di forse venti usignuoli ed altri uccelli, per una vietta non troppo usata, ma piena di verdi erbette e di fiori li quali per lo sopravvegnente sole tutti s’incominciavano ad aprire, prese il cammino verso
l’occidente, e cianciando e motteggiando e ridendo con la sua brigata, senza essere andata oltre a dumilia passi, assai avanti che mezza terza fosse, ad un bellissimo e ricco palagio, il quale alquanto rilevato dal piano sopra un poggetto era posto, gli ebbe condotti. Nel quale entrati e per tutto andati, ed avendo vedute le gran sale, le pulite ed ornate camere compiutamente ripiene di ciò che a camera s’appartiene, sommamente il commendarono, e magnifico reputarono il signor di quello; poi, abbasso discesi, e veduta l’ampissima e lieta corte di quello, le vòlte piene d’ottimi vini e la freddissima acqua ed in gran copia che quivi surgea, piú ancora il lodarono. Quindi, quasi di riposo vaghi, sopra una loggia che la corte tutta signoreggiava, essendo ogni cosa piena di quei fiori che concedeva il tempo e di frondi, postesi a sedere, venne il discreto siniscalco, e loro con preziosissimi confetti ed ottimi vini ricevette e riconfortò. Appresso la qual cosa, fattosi aprire un giardino che di costa era al palagio, in quello, che tutto era da torno murato, se n’entrarono; e parendo loro nella prima entrata di maravigliosa bellezza tutto insieme, piú attentamente le parti di quello cominciarono a riguardare. Esso avea dintorno da sé e per lo mezzo in assai parti vie ampissime, tutte diritte come strale e coperte di pergolati di viti, le quali facevano gran vista di dovere quello anno assai uve fare: e tutte allora fiorite sí grande odore per lo giardin rendevano, che, mescolato insieme con quello di molte altre cose che per lo giardino olivano, pareva loro essere tra tutta la spezieria che mai nacque in Oriente. Le latora delle quali vie tutte di rosai bianchi e vermigli e di gelsomini erano quasi chiuse; per le quali cose, non che la mattina, ma qualora il sole era piú alto, sotto odorifera e dilettevole ombra, senza esser tócco da quello, vi si poteva per tutto andare. Quante e quali e come ordinate poste fossero le piante che erano in quel luogo, lungo sarebbe a raccontare: ma niuna n’è laudevole la quale il nostro aere patisca, di che quivi non sia abbondevolemente. Nel mezzo del quale; quello che non è meno commendabile che altra cosa che vi fosse, ma molto piú; era un prato di minutissima erba e verde tanto, che quasi nera parea, dipinto tutto forse di mille varietá di fiori, chiuso dintorno di verdissimi e vivi aranci e di cedri, li quali, avendo i vecchi frutti ed i nuovi ed i fiori ancora, non solamente piacevole ombra agli occhi, ma ancora all’odorato facevan piacere. Nel mezzo del qual prato era una fonte di marmo bianchissimo e con maravigliosi intagli iv’entro, la quale, non so se da natural vena o da artificiosa, per una figura che sopra una colonna nel mezzo di quella diritta era, gittava tanta acqua e sí alta verso il cielo, che poi non senza dilettevol suono nella fonte chiarissima ricadea, che di meno avria macinato un mulino. La qual poi; quella dico, che soprabbondava al pieno della fonte; per occulta via del pratello usciva, e per canaletti assai belli ed artificiosamente fatti fuor di quello divenuta palese, tutto lo ‘ntorniava: e quindi per canaletti simili quasi per ogni parte del giardin discorrea, raccogliendosi ultimamente in una parte dalla quale del bel giardino avea l’uscita, e quindi verso il pian discendendo chiarissima, avanti che a quel divenisse, con grandissima forza e con non piccola utilitá del signore due mulina volgea. Il veder questo giardino, il suo bello ordine, le piante e la fontana co’ ruscelletti procedenti da quella tanto piacque a ciascuna donna ed a’ tre giovani, che tutti cominciarono ad affermare che, se paradiso si potesse in terra fare, non sapevano conoscere che altra forma che quella di quel giardino gli si potesse dare, né pensare, oltre a questo, qual bellezza gli si potesse aggiugnere. Andando adunque contentissimi dintorno per quello, faccendosi di vari rami d’alberi ghirlande bellissime, tuttavia udendo forse venti maniere di canti d’uccelli quasi a pruova l’un dell’altro cantare, s’accorsero d’una dilettevol bellezza della quale, dall’altre soprappresi, non s’erano ancora accorti: ché essi videro il giardin pieno forse di cento varietá di belli animali, e l’uno all’altro mostrandolo, d’una parte uscir conigli, d’altra parte correr lepri, e dove giacer cavriuoli, ed in alcuna cerbiatti giovani andar pascendo, ed oltre a questi, altre piú maniere di non nocivi animali, ciascuno a suo diletto, quasi dimestichi andarsi a sollazzo; le quali cose, oltre agli altri piaceri, un vie maggior piacere aggiunsero. Ma poi che assai, or questa cosa or quella veggendo, andati furono, fatto dintorno alla bella fonte metter le tavole, e quivi prima sei canzonette cantate ed alquanti balli fatti, come alla reina piacque, andarono a mangiare, e con grandissimo e bello e riposato ordine serviti, e di buone e dilicate vivande, divenuti piú lieti sú si levarono, ed a’ suoni ed a’ canti ed a’ balli da capo si dierono infino che alla reina, per lo caldo sopravvegnente, parve ora che, a cui piacesse, s’andasse a dormire. De’ quali chi v’andò e chi, vinto dalla bellezza del luogo, andar non vi volle: ma quivi dimoratisi, chi a legger romanzi, chi a giucare a scacchi e chi a tavole, mentre gli altri dormiron, si diede. Ma poi che, passato la nona, levato si fu, ed il viso con la fresca acqua rinfrescato s’ebbero, nel prato, sí come alla reina piacque, vicini alla fontana venutine, ed in quello secondo il modo usato postisi a sedere, ad aspettar cominciarono di dover novellare sopra la materia dalla reina proposta. De’ quali il primo a cui la reina tal carico impose fu Filostrato, il quale cominciò in questa guisa: